Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi (LaPresse)

Commissario del popolo

Valerio Valentini

Moavero per la Concorrenza europea, la Belloni per la Farnesina. L’incontro tra Conte e VdL, il rimpasto agostano

Roma. Alla fine, un po’ come quelle filastrocche che ricominciano sempre dallo stesso incipit, anche i ragionamenti che a Palazzo Chigi si fanno intorno al nome del commissario europeo tornano immancabilmente a ruotare intorno alla stessa figura: Enzo Moavero Milanesi. Era lui il profilo più accreditato, mesi fa, prima che si accendesse la ridda di ipotesi, e retroscena, e baruffe elettorali. Ed è ancora lui il nome che appare, se non l’unico spendibile per un portafoglio di peso a Bruxelles, quantomeno il più spendibile.

 

Ne parleranno anche Giuseppe Conte e Ursula von der Leyen, nell’incontro di venerdì. Non ufficialmente, certo. Perché di nomi, precisano dallo staff del premier, l’“avvocato del popolo” non ne farà, alla nuova presidente della Commissione europea. Ascolterà semmai le indicazioni della ex ministra della Difesa tedesca, che arriva a Roma intorno a mezzogiorno, dopo avere già fatto visita a Berlino e Parigi nella scorsa settimana, e poi a Varsavia, e a Madrid, e perfino a Zagabria, ultima entrata nell’Unione. Un ritardo che a suo modo è significativo della marginalizzazione del nostro paese nel consesso comunitario, e che fornisce un indizio dell’inflessibilità che la Von der Leyen utilizzerà nei confronti delle richieste italiane. La trattativa, in fondo, è presto detta: da Bruxelles, giorni fa, hanno fatto trapelare in modo fin troppo chiaro di essere ben disposti a concedere al governo gialloverde una delega di peso, all’interno della Commissione, perfino la tanto ambita Concorrenza, a patto che venga proposto un nome che non sia connotato come espressione della Lega. Ed ecco allora che la candidatura di Moavero ha ripreso di nuovo consistenza, vista anche la sua profonda conoscenza non solo dei corridoi di Palazzo Berlaymont, ma anche delle specifiche prerogative che al commissario alla Concorrenza o al Mercato interno (altro portafoglio ambito) appartengono, essendo lui stato capo di gabinetto di Mario Monti quando questi, tra il 1995 e il 2000, proprio quegli incarichi ricopriva. Che sia questa la sua speranza, è a tal punto evidente che pare sia stato lo stesso Moavero a indicare, come a voler preventivamente suggerire la soluzione, il suo possibile sostituto alla guida della Farnesina nella persona di Elisabetta Belloni

   

L’ideale passaggio di consegne, a detta di chi ben conosce i diretti interessati, sarebbe avvenuto la scorsa settimana durante la tradizionale Conferenza degli ambasciatori. Tre giorni di incontri e seminari, riservati e non, di fatto monopolizzati dalla figura dell’attuale segretario generale del ministero degli Esteri, mentre Moavero ci teneva quasi a esibire la sua marginalità, com’è del resto spesso avvenuto in questo anno e mezzo di governo, durante il quale Moavero ha sempre cercato di non restare troppo coinvolto nella quotidiana dissennatezza grilloleghista, arrivando al punto di rendere poco chiara la linea del governo su cruciali dossier di politica estera e dando in certe circostanze l’impressione di voler preparare una exit strategy verso Bruxelles. D’altro canto, chi è stata particolarmente attiva, alla Farnesina, è stata proprio la Belloni, ambiziosa in misura pari alla sua competenza, già capo di gabinetto di Paolo Gentiloni quando era ministro degli Esteri. La diplomatica romana gode della stima di Sergio Mattarella, e di una buona considerazione – che non guasta mai – presso il Dipartimento di stato americano, forse anche per via di quella sua mai celata insofferenza verso i deragliamenti gialloverdi sulla Via della Seta. E che in fondo ci creda, in una sua promozione, lo dimostra anche l’estrema riservatezza in cui lei, di solito sempre garbatamente disponibile, si è rinchiusa nelle ultime settimane, evitando di rilasciare dichiarazioni.

  

Non è escluso peraltro che possa essere tirato in ballo anche per un posto da commissario, il suo nome. Specie se davvero, come pare, la Von der Leyen dovesse pretendere dall’Italia una candidatura al femminile. “Richieste che di solito si fanno ai paesi meno importanti – sentenziava nei giorni scorsi Adolfo Urso, senatore di FdI – e che ora invece vengono rivolte all’Italia, che evidentemente è stata declassata nelle gerarchie di Bruxelles”. Se così fosse, persino Elisabetta Trenta potrebbe far valere la sua buona confidenza con la sua ex omologa, costruita nel corso dei consigli europei dedicati alla Difesa e nei rapporti diplomatici che tra ministri di paesi alleati sempre s’instaurano. Ma a quel punto, viste le competenze della Trenta, le aspirazioni dell’Italia dovrebbero ridimensionarsi non poco, puntando al massimo a un portafoglio di ripiego come quello sulla Migrazione. Cosa difficile che segnerebbe una sconfitta politica per Matteo Salvini: lui che le elezioni europee le ha vinte, e che in virtù di quel successo ha a lungo rivendicato il diritto di indicare il commissario, finirebbe col vedere incensata l’esponente del M5s contro cui più spesso, e con più determinazione, si è scagliato. Certo, il tutto potrebbe risolversi, come sibilano alcuni leghisti, nella logica del promoveatur ut amoveatur, liberando la poltrona apicale a Palazzo Baracchini.

   

D’altronde, che la scelta del commissario si leghi al garbuglio del rimpasto, da varare a metà agosto così da rendere meno esposta la trattativa sulle poltrone, è fin troppo evidente. L’esigenza di un riassetto, a Salvini, l’hanno evidenziata tutti gli uomini del Carroccio coinvolti nell’esecutivo. E lui stesso, nel suo buen retiro del Papeete, a Milano Marittima, in questi giorni ha confermato ai suoi confidenti che “no, un altro anno così non lo reggo”. Ed è anche per questo che, nelle scorse settimane, ha continuamente chiesto a Roberto Calderoli di elaborare delle proiezioni per il possibile ritorno al voto anticipato, con tanto di tempistiche e scadenze, non trovando però mai il coraggio di far saltare davvero il tavolo e lasciando così che la finestra per le elezioni a ottobre si chiudesse del tutto. “Il punto è che noi col cerino in mano non vogliamo restarci, per cui ormai se ne riparla semmai a marzo, dopo la manovra”, osservava ieri il viceministro allo Sviluppo economico Dario Galli, leghista di lungo corso e di grande esperienza. E pure i grillini devono percepirlo, questo rischio, se è vero che, alcuni di loro, stanno pensando di proporre il nome di Giovanni Tria come quello del possibile commissario. Una scelta che da un lato salverebbe le forme, visto che il ministro dell’Economia è arrivato a Via XX Settembre in quota Lega; e in parte costringerebbe i leghisti a non fuggire dalle loro responsabilità sulla manovra, per poi potere rompere per la “mancanza di coraggio” nella prossima legge di Bilancio, anche a costo di consegnare le chiavi del Mef a un esponente del Carroccio.

  

Tutto, comunque, passerà per le mani di Conte, guidate dai consigli neanche troppo velati del Colle. Ed è come gustando l’ebbrezza di una centralità finalmente guadagnata, che il premier, di fronte alle obiezioni di chi gli chiede delle possibili resistenze di Salvini, si limita a rispondere che spetta alla Lega decidere cosa fare, ed eventualmente assumersi la responsabilità di proporre un nome che finora non ha fatto. Quello di Giancarlo Giorgetti, del resto, era l’unico che Salvini aveva preso in considerazione, snobbando tutte le alternative – una su tutte: Domenico Siniscalco – che il sottosegretario gli offriva pur di non essere obbligato al trasloco a Bruxelles. Ed era proprio nell’ambizione di ottenere un seggio nella Commissione che per settimane Salvini ha tenuto un atteggiamento ambiguo ma dialogante, nell’Europarlamento, obbligando i suoi sherpa a brigare, a contrattare, a tentare di forzare, o quantomeno di aggirare, quel cordone che si era attivato per rendere inoffensivi i partiti della destra sovranista. E’ finita con un nulla di fatto, e a quel punto Giorgetti ha avuto buon gioco a sfilarsi, spingendo anche Salvini a prendere atto dell’irrilevanza europea del partito. Se ora spera di garantire un portafoglio di prestigio all’Italia, anche il leader della Lega dovrà rimettersi nelle mani di Conte e rassegnarsi a dare la sua benedizione al nome di un tecnico, uno gradito al Colle e ben introdotto nelle cancellerie europee. Uno come Moavero, insomma. Guarda caso, l’unico ministro citato da Conte, e col riguardo dovuto, nel suo discorso al Senato sull’affaire Metropol, una settimana fa. Segnali.

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