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Il male della sinistra italiana è da sempre la sua scarsa cultura riformista

Giuseppe Bedeschi

Poche idee per rimediare al disastro in cui siamo immersi

Sul Corriere della sera dello scorso 5 luglio, un acuto osservatore delle nostre vicende politiche, Michele Salvati, ha sottolineato i limiti dell’attuale schieramento di sinistra con queste parole: “I suoi parlamentari sono spesso efficaci nel contestare i provvedimenti dell’attuale governo, ma non è così che si spostano i confini se non si risponde a un’ovvia domanda. Sui temi che preoccupano la gran parte degli elettori – l’immigrazione, l’insicurezza, il ristagno economico, le disuguaglianze, la povertà – voi che proposte concrete avete? […] Se il Pd non riesce a dare queste risposte, se cerca un alleato, non fa che passargli la patata bollente”. Credo che Salvati abbia messo il dito nella piaga: l’insufficienza di cultura riformistica e di concretezza politica (due dimensioni strettissimamente correlate) che caratterizza la sinistra italiana.

 

Tale insufficienza ha una lunga storia nella nostra Repubblica, una storia che incide sicuramente sulla sinistra attuale (del resto, come ci ricorda Salvati, il Pd è l’unico grande partito a rassomigliare alle organizzazioni politiche della Prima Repubblica, essendo di fatto l’erede parziale di due di esse: del Partito comunista e della sinistra della Democrazia cristiana). Non sarà fuori luogo ricordare alcuni momenti di tale storia.

 

Negli anni del Dopoguerra il capo del Pci, Palmiro Togliatti, escluse senz’altro la via rivoluzionaria (“compagni, oggi non si tratta di fare come in Russia”), e pose come obiettivo del suo partito una “democrazia progressiva”, incardinata su “riforme di struttura”. Ma che cosa erano queste “riforme di struttura”? Erano una serie di nazionalizzazioni dei grandi complessi industriali (elettrici, meccanici e chimici), delle grandi banche e delle compagnie di assicurazione, nazionalizzazioni che avrebbero dovuto essere accompagnate da un inizio di pianificazione economica e dalla istituzione di un sistema di controllo della produzione, reso possibile dal riconoscimento dei consigli di gestione. Peccato, però, che tutto ciò non avesse nulla a che fare col riformismo, perché un disegno di questo genere avrebbe strangolato pian piano l’economia di mercato, cioè la società libera. Ma anche l’esperienza di centro-sinistra, avviata dal Psi con la Democrazia cristiana a partire dai primi anni Sessanta, non andò meglio sul terreno riformistico. Del resto, il “cervello” di tale operazione nel Psi fu Riccardo Lombardi, il quale dichiarò più volte che il centro-sinistra doveva perseguire l’obiettivo di “superare la società capitalistica”. E questo fu l’andazzo che caratterizzò quell’esperienza (e che provocò un contenzioso aspro e continuo con la Dc): al punto che, come rilevò uno degli intellettuali socialisti più eminenti, Luciano Cafagna, “in nessun altro periodo si sono costruite in Italia meno case, meno scuole, meno ospedali rispetto al fabbisogno; mentre cominciò invece la travagliata e interminabile discussione sulla “riforma” urbanistica, sulla “riforma” scolastica, sulla “riforma” sanitaria”. Parole al vento, altro che riformismo!

 

Su questo terreno fallì anche la politica di Enrico Berlinguer quando avviò, con la collaborazione di Aldo Moro e di Benigno Zaccagnini, l’esperimento della “solidarietà nazionale”. Figura patetica e tragica quella di Berlinguer, il quale aveva fatto enormi sforzi per differenziare il suo partito dall’Urss (il cui vertice lo minacciò di una scissione, e cercò di ucciderlo durante una visita di in Bulgaria). Per realizzare la “solidarietà nazionale” in un momento di crisi drammatica del paese, Berlinguer votò provvedimenti economico-finanziari durissimi. Ma il leader del Pci non riuscì a incidere sul terreno riformistico (che, per altro, non rientrava nel suo Dna, essendo egli convinto da sempre che le esperienze socialdemocratiche sarebbero state per i comunisti una pura e semplice capitolazione). E del resto uno dei massimi esponenti del Pci, Gerardo Chiaromonte (che era sulla linea Napolitano-Macaluso) non ebbe difficoltà ad ammettere che il Pci non riusciva ad individuare e ad affrontare i problemi connessi con gli enormi mutamenti economici, sociali e culturali che il nostro paese aveva registrato negli anni Cinquanta-Sessanta, e che lo collocavano ormai fra le prime potenze industriali. “A questo insieme di problemi – scrisse Chiaromonte – la sinistra e il Pci erano di fatto, per molti aspetti, impreparati. E non riuscimmo a proporre vie nuove, e al tempo stesso concrete e credibili, per affrontarle”. Questo il deficit storico della sinistra italiana sul terreno del riformismo. Tale deficit si ripropone oggi. Il quadro del nostro paese è assai preoccupante. La nostra economia non cresce da lunghi anni, se non in modo insignificante; il nostro mostruoso debito pubblico non diminuisce e pesa come un macigno sull’avvenire delle giovani generazioni; la crisi demografica è gravissima; molti dei nostri giovani migliori cercano possibilità di lavoro all’estero, dove sono accolti e apprezzati. Quali riforme, concrete e fattibili, propone la sinistra per rimediare a questo disastro?

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