La maggioranza che governa il Pd è già spaccata sul Jobs act

David Allegranti

La segreteria Zingaretti deve già fare i conti con le divisioni interne su questioni centrali come l’economia e il lavoro

Roma. La segreteria di Nicola Zingaretti si è appena insediata ma già deve fare i conti con le divisioni interne su questioni centrali come l’economia e il lavoro. L’aspetto interessante è che è la stessa maggioranza che ha sostenuto Zingaretti al congresso ad avere due linee diverse e contrastanti. Per esempio sul Jobs act. Antonio Misiani, capo del dipartimento Economia al Largo del Nazareno, mercoledì scorso ha spiegato al Foglio che sugli 80 euro e il Jobs act bisogna essere “pragmatici, senza rinnegare le cose buone fatte in passato ma cambiando ciò che va cambiato. Se la discussione atterra sul merito dei problemi, le divisioni si superano. Sul Jobs Act siamo per modificare ciò che non ha funzionato e per attuare le parti più innovative, come le politiche attive. E’ una posizione migliorista, così si diceva una volta”.

 

Nello stesso giorno, però, il responsabile Lavoro del Pd, Peppe Provenzano, spiegava sul Fatto Quotidiano che il jobs act va semplicemente cancellato. “L’abolizione dell'articolo 18 – ha detto Provenzano – è stato un errore al di là del merito, per la valenza simbolica che ha avuto”. Da qui la necessità di ridiscutere il Jobs Act “guardando al futuro. Serve uno Statuto dei nuovi lavori e dei lavoratori”.

 

Insomma, il Pd di Zingaretti marcia diviso per colpire disunito. E, attenzione, avverte Luigi Marattin, la segreteria può prendere tutte le decisioni che vuole, il problema è l’ambiguità di fondo. “Io sono molto sensibile all’argomento di chi dice ‘ho vinto il congresso, adesso devo aver modo di impostare la linea del partito’. Perché era l’argomento che usavamo ai tempi di Renzi. E un segretario che vince bene il congresso ha il diritto di scegliersi la segreteria che vuole. Per questo considero stucchevoli le polemiche sull’unità. Dove sta scritto che una segreteria debba essere unitaria? E’ uno strumento e deve essere espressione della linea politica che ha vinto il congresso”, dice Luigi Marattin. “Nel merito però nessuno, neanche la mozione Zingaretti, diceva di ripristinare l’articolo 18, come invece sostiene il neo-responsabile lavoro del Pd. Né Zingaretti né le persone a lui vicine ne avevano mai parlato. E non mi risulta che il nuovo segretario abbia vinto il congresso proponendo il ripristino dell’articolo 18”.

 

C’è poi un altro punto di merito, osserva Marattin. “Lo diciamo da tempo. L’articolo 18 non era la forma di tutela maggioritaria neanche quando era in vigore. Quanto al ‘Jobs act da rifare’, io non capisco cosa voglia dire. Che fosse da completare con le politiche attive, beh, questo lo diciamo tutti. E l’unico motivo per il quale non è stato completato lo conosciamo bene: il fallimento del referendum del 4 dicembre 2016, che prevedeva anche l’accentramento della competenza sul lavoro allo Stato. Se lo slogan fosse ‘bisogna completare il Jobs act’ saremmo d’accordo tutti. Ma così non è”.

  

Nella maggioranza del partito c’è anche qualche ambiguità su cosa fare, una volta al governo, con Quota 100 e Reddito di cittadinanza. Marattin invece non ha dubbi e ha una posizione molto chiara: “Finora non c’è stato un luogo di discussione nel Pd sull’argomento, ma capisco anche che la segreteria si sia insediata da poco e confido che ci sarà a breve. Quando capiterà, comunque, dirò le stesse cose che sto per dire adesso: Reddito di cittadinanza e Quota 100 sono due provvedimenti che vanno aboliti. Con il soldi del primo andrebbe rinforzato il Rei, reddito di inclusione – che si chiama così anche perché coinvolge i comuni, è disegnato meglio e non contiene la penalizzazione per la famiglie numerose – mettendoci almeno 3 miliardi di euro in più. Per quanto riguarda l’abolizione di Quota 100, invece, dico questo: va resa strutturale l’APe Social, che permette il pensionamento anticipato (per giunta senza penalizzazioni) a chi si è spaccato la schiena; altrimenti vai in pensione come nel resto d’Europa, a maggior ragione in un paese in cui per decenni è stato sfasciato il sistema pensionistico. C’è qualcuno che vuole aumentare il novero dei lavori gravosi usuranti, che oggi sono 15 e sono considerati pochi? Va bene, purché non diventi usurante fare il poeta. Comunque, ora che si è insediata la segreteria sono sicuro che ci sarà modo di discuterne nel merito”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.