Matteo Salvini (foto LaPresse)

Make anti Italians great again

Claudio Cerasa

Un leader che sostiene di avere a cuore gli interessi italiani dovrebbe stare più dalla parte di Draghi (e del prosecco) che dalla parte di Trump. Il trojan del sovranismo: indagine breve sugli utili idioti dell'occidente

Negli ultimi giorni, diversi osservatori hanno scelto di trasformare la visita di Matteo Salvini negli Stati Uniti nel simbolo di una grande svolta culturale, geopolitica e diplomatica portata avanti dal leader della Lega. I più entusiasti e spericolati sostenitori della dottrina salviniana sono arrivati a paragonare il viaggio del vicepremier con quello fatto da Alcide De Gasperi nel 1947, quando l’allora presidente del Consiglio, dopo un incontro con Harry Truman, decise di rompere con il Pci al governo e di dare vita a un esecutivo fieramente atlantista, e lo stesso ministro dell’Interno, negli ultimi giorni, ha tentato in tutti i modi di usare l’incontro con il segretario di stato, Mike Pompeo, e il vicepresidente Mike Pence per dimostrare che l’Italia, almeno quella a trazione salviniana, in giro per il mondo non è affatto isolata come potrebbe sembrare. Non c’è dubbio che il leader della Lega stia tentando in tutti i modi di trovare anche in politica estera (i cui punti fermi finora hanno coinciso con una marcata vicinanza a Israele e all’Egitto, una marcata distanza dalla Turchia, dalla Cina e dall’Arabia Saudita, una marcata ambiguità con la Russia di Vladimir Putin) un assetto utile a rendere evidente la necessità di avere al più presto una discontinuità all’interno del governo. Ma l’epopea salviniana presenta un elemento di fragilità piuttosto significativo che riguarda un tema poco notato sia da chi ha trasformato il viaggio di Salvini negli Stati Uniti nel simbolo di una riscossa del trucismo sia da chi lo ha trasformato nel simbolo di un tradimento.

 

 

E la questione è questa: il tentativo di Salvini di avvicinarsi a Trump non indica un atto di fede nei confronti dell’atlantismo, bensì un atto di fede nei confronti dell’ideologia dell’opportunismo. Può sembrare una piccola sfumatura ma dietro al tentativo di avvicinarsi al trumpismo non vi è né la volontà di consolidare le tradizionali coordinate geopolitiche del nostro paese né la volontà di fissare con ancora più forza rispetto al passato i paletti del multilateralismo. Vi è qualcosa di più sottile: vi è la volontà esplicita di fare della tessera numero uno dell’internazionale sovranista un alleato in prospettiva più utile per il futuro di Salvini che per il futuro dell’Italia. Il bollino del trumpismo può permettere al leader leghista di creare una connessione sentimentale con la dottrina del presidente americano, ma la particolarità dell’alleanza fra il trucismo e il trumpismo è che oggi fare gli interessi dell’America trumpiana significa non fare gli interessi dell’Italia. Come cartello elettorale, il trumpismo può essere forse utile al salvinismo, ma un leader che ha a cuore gli interessi di un paese come l’Italia fino a che punto può difendere una dottrina politica destinata a creare gravi danni alla nostra economia?

 

 

Un leader che sostiene di avere a cuore gli interessi degli italiani dovrebbe stare più dalla parte di Mario Draghi che dalla parte di Donald Trump (Salvini ha twittato su qualsiasi cosa, negli ultimi giorni, ma si è dimenticato di difendere il governatore della Bce, che ha ridato ossigeno all’economia italiana con il suo ultimo whatever it takes, dagli attacchi di Trump, che ha accusato Draghi di aver avallato una politica di concorrenza sleale ai danni degli Stati Uniti, facendo calare il cambio dell’euro rispetto al dollaro). Dovrebbe stare più dalla parte di chi vuole esportare liberamente il prosecco che dalla parte di chi vuole tassare la sua esportazione (ad aprile Trump ha annunciato di voler mettere dazi sul prosecco, cosa che se davvero dovesse avvenire metterebbe a rischio un mercato di bollicine italiane che solo negli Stati Uniti vale qualcosa come 300 milioni di euro). Dovrebbe stare più dalla parte di chi vuole difendere le esportazioni tedesche che dalla parte di chi come Trump quelle esportazioni le vuole tassare (se Trump dovesse tassare il settore delle auto europee, il mercato tedesco – secondo molti analisti – potrebbe perdere fino al 12 per cento del suo valore, e considerando che la Germania assorbe il 22 per cento dell’export italiano in componentistica, non ci vuole molto a capire quanto possa essere penalizzata l’Italia da una frenata ulteriore della produzione tedesca).

 

Avere come potenziale alleato il presidente americano, e promettere di regalare all’economia italiana lo stesso choc fiscale regalato all’America da Trump, può forse aiutare Salvini a raggranellare qualche voto in più in campagna elettorale (ci siamo quasi). Ma l’idea che l’alleanza con l’America di Trump, con la Russia di Vladimir Putin e con l’Inghilterra di Nigel Farage e di Boris Johnson possa essere il simbolo di una reale capacità del ministro di creare una rete di alleanze utile a rafforzare il nostro paese è una drammatica illusione ottica. Quelli che dovrebbero essere i nostri alleati sono diventati i nostri nemici. Quelli che dovrebbero essere i nostri avversari sono diventati i nostri falsi amici. Il grillismo ha contribuito a infettare il nostro stato di diritto con la politica dei trojan, il sovranismo sta contribuendo a infettare l’interesse nazionale con la politica dei cavalli di Troia. Lenin, un tempo, per descrivere coloro che in occidente sostenevano le politiche dell’Unione sovietica, coniò la famosa formula degli utili idioti dell’occidente. E’ passato molto tempo ma gli utili idioti sono ancora qui.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.