Alessandro Di Battista (foto LaPresse)

Di Battista, il D'Alema di Vigna Clara

Salvatore Merlo

E' uno e trino, doppio e quadruplo. Storia del surreale (e fallito) putsch contro Di Maio

Roma. Quando si alza in piedi – è in terza fila, “sono uno come gli altri” – sono passate da poco le 23. Si aggiusta i capelli, prende il microfono, si schiarisce la voce, ma non fa in tempo a fiatare che già l’agenzia Dire batte le sue esatte parole. Ancora prima che lui le pronunci. Un miracolo. Titolo: “Di Battista bacchetta i parlamentari”. Virgolettato: “Se non era per Luigi non stavate qui. Si vince e si perde tutti insieme. Nel Movimento funziona così”. E insomma alle 23 di mercoledì, fallita la spallata organizzata (male) insieme a Gianluigi Paragone per rovesciare “il mio amico praticamente un fratello” Di Maio, ecco che Alessandro Di Battista – ormai ribattezzato il D’Alema di Vigna Clara – si esercita in un’acrobatica ginnastica di dissimulazione davanti ai gruppi parlamentari del Movimento. La gente, ascoltandolo, resta comprensibilmente basita. Ma lui è un attore consumato. Rotea l’indice, lo punta verso deputati e senatori, ammirati da cotanta bronzea agilità, e li accusa di pigrizia e un po’ anche di tradimento. Quindi ricorda a tutti come facevano “loro”, i vecchi che andavano in giro per l’Italia in motorino, loro che erano leali, mentre questi grillini di adesso fanno i capricci anche per restituire lo stipendio: “Prendete esempio da Luigi”. Qualcuno, comprensibilmente, quasi sviene. Altri mormorano: “Che magnifico paraculo!”. E infatti, rinviato l’annunciatissimo viaggio in India, per due giorni il Dibba era rimasto ad aspettare l’effetto delle critiche scagliate contro Di Maio da Paragone, Ruocco, De Nicola, Travaglio e altri. Sembrava fatta. La ghigliottina era allestita. E lui era pronto a subentrare. Finché Grillo ha fermato tutto. Ed ecco che, oplà, a tarda sera il capo dei giacobini congiurati si traveste da fratello del re. Doppio, triplo, quadruplo… magnifico Dibba. 

 

Poiché l’ambizione esibita è peccato mortale in Italia, la patria dei falsi umili, allora Dibba dice sempre che vuole fare il papà, che gli piace girare, scrivere, fare fotografie… il Sudamerica e l’India, i diari e le motociclette, lo zaino in spalla e le corrispondenze per il Fatto. La sua dimensione a ben guardarlo, e volendolo nobilitare assai, è a metà strada tra quella di Veltroni che doveva sempre andare in Africa e quella di D’Alema che invece – a sentire lui – lavorava lealmente per aiutare Prodi a governare il paese. Quindi Dibba dice di voler andare in India, ma non ci va. Incontra “mio fratello Luigi” al ministero, lo rassicura, ma poi uscito da lì se ne va in motorino con il senatore Paragone, quello che “c’è bisogno di discontinuità”. Fino a mercoledì sera era pronto a farsi portare in spalla alla guida di un movimento tornato barricadero dopo la disfatta delle europee. A furor di popolo (e di editoriali di Travaglio) era l’interprete designato della nuova fase tutta opposizione, elezioni anticipate e vaffa a Matteo Salvini. Ma poiché la storia non replica, e quando replica il dramma si muta in commedia, poi in parodia e infine in grottesco, il D’Alema di Vigna Clara, a differenza dell’originale che è di Testaccio, non è riuscito nella manovra. Eppure quelli che adesso i grillini chiamano “i miserabili” gli avevano aperto la strada. Soltanto che Grillo – forse convinto da Casaleggio – ha negato l’assenso al colpo di grazia. Ha bloccato ogni cosa. “Luigi non ha commesso un reato, non è esposto in uno scandalo di nessun genere”, ha scritto sul blog. “Deve continuare la battaglia che stava combattendo prima”.

 

Così, poche ore dopo, in assemblea, è andata in scena la comica ritirata. Carla Ruocco è passata dalla critica nei confronti dell’uomo solo al comando al “Luigi ha la nostra totale fiducia”. E con lei tutti gli altri, compreso Travaglio sul Fatto. Solo Roberto Fico ha bofonchiato (auto)critiche confuse e vaghe. Non Dibba, ovviamente. Lui, bello e spettinato, si è abbandonato a uno sperticato elogio di Di Maio. Rifilando – per sovrammercato – una pubblica ramanzina ai parlamentari: voi tutti dovreste baciare la terra su cui cammina Luigi. Ma quelli, ovviamente, che non sono tutti dei baluba, l’hanno presa abbastanza male. “Vorrei dire all’illustrissimo cittadino Alessandro Di Battista che noi abbiamo lavorato mentre lui stava in vacanza”, gli ha risposto il presidente della Commissione affari costituzionali, Giuseppe Brescia. E improvvisamente il mitologico Dibba non sembra più simpatico e sanguigno nemmeno ai quei deputati grillini che, in gran parte alla prima legislatura, fino ieri lo consideravano una specie rockstar. Anche D’Alema stava antipatico, si dirà. Ma almeno era un maestro della doppiezza, e i complotti gli riuscivano.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.