La lotta tra nome e nome, anche in assenza del televoto, è improvvisamente considerata un sistema per arginare la disaffezione (nella foto, Totò nel film "Gli Onorevoli")

Bentornata preferenza

Marianna Rizzini

Per le europee c’era già, ma dopo l’oblio post Tangentopoli il “Votantonio Votantonio” è stato riabilitato

Erano viste come le streghe, i mostri, i draghi che sputano fuoco in “Game of Thrones”, l’origine di tutti i mali, l’anticamera della notte, la base di ogni possibile non-trasparenza, la via prediletta delle caste e dei poteri forti. Erano le preferenze, grandi accusate dell’epoca post Tangentopoli e non solo: bestie nere di chi le descriveva come sinonimo di “politica partitica” prima che il quadro cambiasse al punto da renderle, con il senno di poi, e agli occhi di molti, la panacea per il male della cosiddetta “calata dall’alto”: il candidato imposto (per non dire del candidato scelto da quattro gatti sul web e poi messo in lista per la ratifica dell’elettore). E anche se le europee facevano eccezione – la preferenza c’era, e lo sanno i candidati che, senza andare troppo indietro, nel 2009 e nel 2014 si sono visti chiudere le porte di Bruxelles a un centimetro dal naso (relativamente pochi voti), mai come in questa vigilia di voto, da almeno vent’anni, la preferenza non è guardata con sospetto, anzi: uscita dal castigo, non più nascosta come residuato bellico della Prima Repubblica sotto al tappeto, è diventata la possibile arma per la catarsi in tempi di antipolitica (non siamo tornati al “Votantonio, Votantonio”, ma la lotta tra nome e nome, anche in assenza di televoto, è improvvisamente considerata un sistema per arginare la disaffezione e attirare l’elettore abituato a defenestrare e salvare mentalmente non soltanto i concorrenti dei reality show ma anche le facce che vede nei talk).

 

Con la preferenza, come una volta, ci si misura tra avversari, tra alleati, tra compagni di partito. Ma, a differenza di una volta, alla preferenza si guarda come alla terra vecchia lasciata per la nuova (si sapeva quello che si lasciava, ma si è trovato un peggio che fa desiderare di fare non uno, ma quattro balzi all’indietro). E c’è chi si diverte, come brandendo un ideale telecomando in mano, a immaginare chi verrà ridimensionato, per esempio, nella lotta di voti non tanto tra candidati per così dire “rossi” e verdi (tipo Giuliano Pisapia contro Matteo Salvini nel nord-ovest) quanto tra rossi e rossi (l’ex ministro Carlo Calenda e l’ex capo dell’Agenzia spaziale Roberto Battiston per il Pd nel nord-ovest, ma anche, in generale, Calenda contro i candidati più “di sinistra”, e i candidati “renziani” contro i “non renziani” e i candidati Pd contro quelli dell’“enclave” di transfughi Mpd-Articolo Uno ora in riavvicinamento). Per non dire dello scontro tra gialli e gialli (tipo il sindaco uscente di Livorno Filippo Nogarin in competizione interna con l’eurodeputato uscente Fabio Massimo Castaldo).

 

Sfide tra avversari e tra compagni di partito, elettori come al televoto. E la preferenza smette di essere origine di tutti i mali

C’è poi chi, vedendo candidato un “Prodi”, ha pensato a un ritorno del Professore: invece trattasi di Silvia, sua nipote, candidata però con il Pd e con la Sinistra. E, nel centrodestra, i berlusconiani che attendevano il ritorno dell’ex premier sognano invece il riscatto non soltanto televisivo (specie dopo l’ultima settimana di ospitate con il Cav. sorridente che parla su tutte le reti di Europa) ma anche numerico (della serie: vade retro rottamatori azzurri). E insomma, anche a cercarlo, si fa fatica a trovare, all’ultimo miglio pre-voto, qualcuno che, a differenza che nel recente passato, vada a ripescare tutta la memorabilia, vera o falsa, romanzata e non, sul conteggio di preferenze che scatena battaglie campali nei sotterranei di via del Gesù (ai tempi della Dc) e che ispira sordi duelli nella via accanto (Botteghe Oscure, allora sede del Pci).

 

Non si sentono neanche più narrazioni, non si quanto aderenti alla realtà, sul candidato che promette e sull’elettore che dona (soldi, ma anche cibarie: polli, prosciutti), ed è a questo punto che l’ex ministro e storico esponente dc Paolo Cirino Pomicino sbotta: “Altro che polli. La preferenza era, è, lo strumento che legava ogni parlamentare al proprio territorio e ai suoi bisogni, mentre le liste bloccate lo legano, oggi, al segretario del partito. Ogni parlamentare aveva questa abitudine: il lunedì mattina riceveva persone, a volte anche il venerdì pomeriggio”. Non gente che portava doni, ma cahier de doléances: “Venivano i rappresentanti dei consigli comunali”, racconta Pomicino, “e i rappresentanti di quartiere, e gli imprenditori. Il partito, come vuole la Costituzione, si faceva davvero tramite tra le istituzioni e la società. Una società democratica: i parlamentari non erano selezionati dal capo di turno ma dai cittadini. Non era possibile che il partito censurasse qualche presenza a prescindere. E aggiungo: ci sono vari sistemi elettorali, certo, ma anche i collegi uninominali esaltati dal Mattarellum non escludevano le preferenze. Senza contare che le preferenze permettevano di misurarsi non soltanto con il nemico esterno, ma anche con quello interno. E se vincevi la guerra interna prendevi una forza non scalfibile alla prima difficoltà.

 

Il collegio maggioritario come “prigione” (secondo Mastella) e il voto “micro-personale” spiegato dal politologo Mauro Calise

Eri due volte impegnato: contro l’avversario e contro il collega di partito”. E le correnti? Altra bestia nera degli anni tra la fine della Prima e l’inizio della Terza Repubblica: “Sono contrario da sempre alla lista apparentemente forte e precostituita per vincere le elezioni. E poi che fai? La corrente permetteva paradossalmente, dopo il voto, di ricomporre il tutto. E la rottamazione la facevano i cittadini che non ti eleggevano”. Racconta, Pomicino, di quando era capolista a Napoli, nel 1972. “Al di là della corrente, si era di fronte a una vera e propria selezione darwiniana, non cortigiana. L’alternativa della Seconda Repubblica, invece, anche con il Mattarellum, favorisce la cortigianeria. E con la cortigianeria che cosa si ottiene? La mediocrità, come quella visibile in Parlamento oggi, nella Terza Repubblica”. Eppure le preferenze, a lungo, sono state viste come via maestra per favorire i candidati della criminalità organizzata. “Macché, anzi, sfato un mito negativo”, dice Pomicino. “Avete presente una circoscrizione del passato, nel Mezzogiorno? Per essere eletto dovei girarla in lungo e in largo: io prendevo 180 mila voti, Antonio Gava 280 mila. La criminalità organizzata quanti voti, anche volendo, poteva spostare? Mille, duemila? Mentre oggi, nei più piccoli collegi uninominali, l’utilità marginale di chi controlla mille o duemila voti è maggiore. Anche per difendersi dall’accerchiamento elettorale della criminalità organizzata è dunque più efficace il voto con preferenze”.

 

C’era però un altro mito negativo, quello delle lotta di preferenze come gara tra ricchi. “Errore”, dice Pomicino. “Si può regolamentare, si può evitare il contributo in bianco, si possono evitare scenari americani – vedi caso Hillary Clinton – ma sarebbe anche ora di smettere di ragionare come se il denaro fosse sempre e comunque sterco del diavolo. Da venticinque anni l’Italia vive sotto un manto di ipocrisia, falso perbenismo, sotto l’egemonia del giustizialismo e del sospetto. Non ci si rende conto di molte cose, e prima di tutto della fragilità delle persone: con quella bisogna fare i conti oggi come ieri. L’uomo cade in tentazione? Sì, ma non per questo bisogna votarsi alla politica del sospetto”.

 

Quando Pomicino, nel 1972, percorrendo il collegio, si trovò di fronte “la selezione darwiniana, non cortigiana”

L’ipocrisia anticasta riflessa sul metodo di elezione dei rappresentanti ha fatto “molti danni” anche secondo Clemente Mastella, ex esponente dc ora in Forza Italia, ministro negli anni Novanta con Silvio Berlusconi e nei primi Duemila con Romano Prodi, sindaco di Benevento, grande difensore delle preferenze durante i passati mandati parlamentari. “Ipocrisia costante, direi, una cosa da intellettuali dei miei stivali. Nel collegio maggioritario, alla fine, conta poco quello che davvero fai sul territorio. Il collegio maggioritario – lo si dovrebbe riconoscere con sincerità – spesso diventa una prigione sia per il candidato sia per l’elettore”. Che cosa ricorda Mastella dei giorni in cui, giovane dc, doveva per così dire andarsi a prendere i voti uno per uno? “Ho iniziato la mia carriera con le preferenze, nel 1976, a ventotto anni e mezzo. Dalla minoranza del partito: con Ciriaco De Mita eravamo frontiera, per così dire, nella Dc. Ed erano partite che si giocavano sul filo del voto di preferenza. Che cosa abbiamo ottenuto con la teologia morale applicata alla politica? L’unica cosa forse che si poteva e si può fare, in caso di voto con preferenza, è cercare un sistema per temperare lo sforzo economico dei candidati. Perché tutti partano dalle stesse condizioni”.

 

Emanuele Macaluso, che la stagione delle preferenze l’ha vissuta dal lato dell’ex Pci-Pds-Ds, sarebbe per un sistema maggioritario a doppio turno, ma in un sistema anche parzialmente proporzionale preferisce “scegliere davvero”: “Non mi puoi obbligare a votare liste confezionate dal partito. Il primo eletto è il primo messo in lista, altro che democrazia. E i candidati chi li sceglie? Non tu. In un contesto totalmente diverso da quello di trenta o vent’anni fa, a quadro politico rivoluzionato, anche chi criticava le preferenze ora le ha rivalutate. In nome di una libertà di scelta che non è mai parsa così preziosa”.

 

Il primo eletto nella lista bloccata “è il primo messo in lista, altro che democrazia”, dice, rimpiangendo il passato, Emanuele Macaluso

Il politologo Mauro Calise, analizzando il fenomeno, pensa che le preferenze siano tornate di moda “perché hanno tre vite. Anzi, tre facce. Fin dalle origini, da quando l’elettore ne aveva a disposizione tre o quattro – a seconda dell’ampiezza della circoscrizione – ai tempi del vituperatissimo proporzionale della Prima Repubblica”. In primis, dice Calise, possono essere usate “per esprimere un voto di opinione, per un candidato che si stima, per la reputazione o per quello che è riuscito a fare mentre stava in Parlamento o al governo. Sarà questo, ad esempio, il caso di Franco Roberti, capolista Pd al sud, noto per il suo lavoro – e impegno civile – come procuratore nazionale antimafia. Certo, però, che se si trattasse di fare affidamento soltanto sulla buona opinione, non sarebbe facile raccogliere le decine di migliaia di preferenze necessarie per arrivare a Strasburgo. Ed ecco che entra in campo il secondo canale, il partito. La visibilità come capolista aiuta, ed è comunque un messaggio che il partito dà anche a quegli elettori che non hanno già in testa un nome, e volentieri possono seguire l’indicazione del partito che votano. Ancor più – come è accaduto in questo caso – se il capolista si ritrova sul palco delle manifestazioni che i big nazionali vanno facendo sul territorio”.

 

C’è poi un altro aspetto, dice Calise, “quello del voto micro-personale: quello che i candidati si conquistano grazie ai propri contatti, porta a porta. Certo, quando si tratta di battere centinaia di comuni in pochi mesi – come è il caso delle elezioni europee – quello che conta è la rete di rapporti coi micro-notabili locali. Le alleanze tessute nel tempo con deputati, consiglieri regionali, assessori municipali. E anche con altri candidati. Grazie al fatto che le preferenze sono tre – a condizione che un voto almeno vada a una donna o a un uomo – il modo più semplice per fare crescere il monte suffragi è quello degli abbinamenti. Magari – perché no – mescolando i canali. Andando al traino e/o facendo da supporto a un candidato voluto dal partito, e che goda della reputazione pubblica che molti galoppini non hanno. Dopotutto, direbbe Totò, è la somma che fa il totale”. E uno ora proprio se lo rivede davanti, Totò, affacciato al terrazzo ne “Gli onorevoli”, con il megafono e il mezzo sorriso stralunato, che urla “Votantonio” per esorcizzare il nulla.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.