Penati ci spiega perché Siri non è obbligato a dimettersi

Gregorio Sorgi

“Non basta un’indagine per lasciare il proprio incarico”. Parla l’ex dirigente Pd, che si dimise da indagato e poi venne assolto

Roma. “Non mi sembra ci siano gli elementi per fare dimettere il sottosegretario leghista Armando Siri. Ma la vicenda è diventata un dibattito politico, e la scelta finale spetta a lui”. Filippo Penati, ex presidente della provincia di Milano del Pd, ha vissuto in prima persona le conseguenze politiche di un’indagine della magistratura. Si dimise dalla carica di vicepresidente del Consiglio lombardo e lasciò la politica dopo le accuse di corruzione e concussione nel 2011 per la riqualificazione dell’ex Area Falck. Le tesi della Procura di Monza si rivelarono infondate e Penati fu assolto in primo grado nel 2015 e in appello nel 2017. “Il mio caso è molto diverso da quello di Siri – spiega Penati al Foglio – Le accuse nei miei confronti risalivano a molti anni prima, però ho ritenuto opportuno dimettermi dalla mia carica istituzionale”. Siri, il sottosegretario ai Trasporti indagato per corruzione, dovrebbe fare lo stesso? “Non mi sembra ci siano gli elementi per farlo dimettere, però è una scelta personale. Sono garantista e credo che Siri vada interrogato il prima possibile per spiegare le sue ragioni e per presentare le tesi della difesa. Però fossi in lui, lascerei il governo perché non mi sentirei più in grado di difendere le istituzioni”.

 

L’ultima parola su questa vicenda spetta al premier Giuseppe Conte: cosa deve fare? “Il premier finora ha preso tempo, ha avuto un atteggiamento pilatesco. Questo è stato un grave errore, avrebbe dovuto parlare con Siri il prima possibile e ascoltare le sue ragioni. Conte deve prendere una decisione, deve stabilire se ci sono le condizioni per andare avanti o se invece Siri deve dimettersi. Nel primo caso, dovrebbe ripristinare le deleghe del sottosegretario, che sono state temporaneamente sospese dal ministro Danilo Toninelli. Siri oggi è un sottosegretario di nome ma non di fatto, e questo situazione non può andare avanti per molto tempo. Il problema vero però è un altro. I partiti di maggioranza hanno fatto entrare Siri al governo dopo che aveva patteggiato una condanna per bancarotta fraudolenta. Questo è stato il grave errore da cui è scaturito tutto il resto. In ogni caso, questa vicenda è stata strumentalizzata dalla politica. Matteo Salvini difende il suo compagno di partito e Luigi Di Maio invece lo invita a dimettersi”.

 

Nel caso di Penati e in molti altri, le indagini della magistratura innescano un meccanismo con delle conseguenze politiche rilevanti. Come si fa a evitare questa deriva? “Non ho mai creduto nei complotti dei magistrati, o nella giustizia a orologeria. Però bisognerebbe sempre aspettare il rinvio a giudizio prima di chiedere le dimissioni di un politico. Poi, se va a processo, è giusto che lasci il suo incarico istituzionale. Fino a quel punto, la politica deve restare a guardare, senza intervenire. Questo criterio garantisce l’indipendenza della politica dalla magistratura. Altrimenti, sono i giudici a dettare le regole e questo non va bene. Non è giusto che un avviso di garanzia o un’indagine siano sufficienti per fare dimettere un politico. Poi, ovviamente, ognuno è libero di agire come meglio crede. Io mi sono dimesso perché mi sentivo in imbarazzo a rappresentare le istituzioni mentre ero indagato, con tutto il clamore mediatico che questo comporta”.

 

I media strumentalizzano le vicende giudiziarie? “Le racconto un aneddoto. Nell’agosto 2011, il gip rifiutò la richiesta di arresto della procura di Monza, e lo sa come lo venni a sapere? Me lo disse al telefono un giornalista del Corriere della Sera, mentre mi trovavo in America. Questo problema riguarda gli organismi di autogoverno della magistratura perché sono le procure a passare le informazioni ai giornali. Però lo stillicidio di notizie che escono durante le indagini creano un danno notevole per l’imputato. E’ come se venisse condannato prima di mettere piede in tribunale. Sono stato cancellato dall’anagrafe del mio partito prima di essere interrogato perché i probiviri si erano espressi prima di ascoltare la mia difesa”.

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