Il leader populista altro non è che il camaleonte descritto da Fernand Angel

Massimo Adinolfi

Un libro del 1946 aveva già previsto tutto

Lo si trova ancora, sul mercato dell’usato, ed è acquistabile per pochi euro il libro definitivo di Fernand Angel, su La vita del camaleonte e altre lucertole (Longanesi, 1946), di cui consiglio caldamente la lettura (o almeno le illustrazioni). Le altre lucertole sono per esempio gli scinchi, gli orbettini, i varani, ma tra tutti i sauri il posto d’onore è riservato senz’altro al camaleonte, noto, più che per la cresta o la lingua lunga e velocissima, per la capacità di cambiare pelle e di assumere le sfumature di colore dell’ambiente nel quale si acquatta.

 

Così anche il leader populista: alza la cresta e usa la lingua e twitta a velocità sorprendente, per occupare tutto lo spazio possibile nella comunicazione politica quotidiana, ma ha la sua principale qualità nella disinvoltura con cui riesce a spacciarsi per “uno di noi”, a farsi uomo della strada con l’uomo della strada, a mettere tutte le divise di tutti gli uomini in divisa (salvo la Guardia di Finanza). Ne esistono naturalmente molte specie e diverse, ma tutte hanno una caratteristica comune: sono animali territoriali e aggressivi, che mal sopportano la presenza, nei paraggi, dei loro simili. La convivenza di due maschi non può concludersi se non con la morte di uno dei due. Parlo dei camaleonti, si capisce, ma pure dei leader populisti che ci governano.

 

I quali non smettono di combattersi: sul caso Siri, sul caso Raggi e sul 25 aprile, per limitarsi alle ultime 48 ore. Non può essere diversamente: il camaleonte può cambiare pelle, non natura. E com’è nella natura dello scorpione pungere la rana che la trasporta verso l’altra sponda del fiume, così è nella natura del camaleonte – voglio dire: del leader populista – proseguire la propria ininterrotta campagna elettorale anche dopo esser andati a Palazzo Chigi. Come se la funzione di governo non comportasse l’assunzione di alcun nuovo onere o di alcuna nuova responsabilità. I populisti diranno anzi di essere rimasti gli stessi, uguali fuori e dentro il Palazzo. Di fatto, questo significa un’agenda di governo scandita dai temi e declinata secondo i moduli della campagna elettorale.

 

Che in democrazia è, ovviamente, il momento più divisivo nella vita di una nazione. Salvini e Di Maio l’hanno assunto come regola della propria condotta politica: l’uno verso l’altro e tutti e due verso il paese. Hanno stabilito che la maggioranza gialloverde non può essere un’alleanza politica: a unirli è solo un contratto, tenuto insieme da un camaleontico sputo. Ognuno ci ha messo dentro il suo, ognuno guarda solo dalla sua parte (come gli occhi dell’animale, che roteano indipendentemente l’uno dall’altro), ognuno marca monoliticamente il proprio territorio.

 

Gli studiosi della leadership tendono a riconoscere al leader politico la capacità di fare comunità, di stabilire una forte corrente di identificazione con i propri seguaci. Nell’interpretazione populista, il risultato è ottenuto attraverso semplificazione e polarizzazione (non trovo analogie, lo confesso, con le imprese del camaleonte). Semplificazione: il popolo siamo noi. Polarizzazione: fuori di noi ci sono solo nemici del popolo. Rapinatori, zingari, comunisti, migranti, fannulloni, casta dei politici, banchieri, mafiosi, corrotti e corruttori: Cinque stelle e Lega differiscono solo nella scelta delle categorie da colpevolizzare ed escludere. Se questa è la logica, non stupisce che quando la competizione si acuisce, trasferendosi all’interno della maggioranza, i due partner siano l’uno spinto dall’altro a ridosso delle categorie additate. Via Siri, i Cinque stelle proiettano sulla Lega l’ombra dell’affarismo e della corruzione; la Lega, per via del caso Raggi, dipinge i grillini come una manica di incapaci e nullafacenti. Un simile tecnica polemica incattivisce la politica e alimenta i motivi di risentimento e di delegittimazione. Altro che “divide et impera”: siamo al “divide et etiam divide et divide quam maxime”. Alla fine uno solo resterà in piedi. Forse.

P.S. Presso alcune popolazioni primitive è diffusa effettivamente la credenza che i camaleonti siano abitati da spiriti cattivi, ma io non voglio credere a simili superstizioni.

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