Una pattuglia della polizia a Piazza dei Cinquecento a Roma (foto LaPresse)

Come Salvini e Di Maio trasformano una rissa tra senzatetto a Termini nello scontro di civiltà

Salvatore Merlo

Un accoltellamento diventa l’ultimo pretesto su cui i vicepremier attaccano la loro competizione

Roma. Martedì nel giro di poche ore Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono riusciti a trasformare in un set da film comico niente meno che lo scontro di civiltà, le tensioni religiose, il radicalismo islamista e la persecuzione dei cristiani in Africa e in Oriente. E insomma in un lampo, anzi in un tweet, i due vicepremier senza briglia hanno satireggiato le questioni più importanti della nostra epoca rivelando in realtà quanto le imminenti elezioni europee siano la più grande iattura da ubriachi che attraversi l’Italia politica in questi mesi. Due senzatetto litigano in quello squallore eterno che a Roma è la stazione Termini, uno tira fuori un coltello, forse cerca di rubare una collanina cui è appeso un crocifisso, forse bestemmia… e i due vicepremier d’Italia ci vedono Bin Laden e Papa Francesco, Samuel Huntington e Tariq Ramadan.

 

Quindi Salvini annuncia di aver scritto “a tutti i prefetti e questori per aumentare controlli e attenzione in luoghi di aggregazione di cittadini islamici”, mentre Di Maio spinge la sua febbre d’inseguimento al punto di chiedere d’urgenza che il presidente del Consiglio convochi il governo per discutere subito di quei 600.000 rimpatri che Salvini ha promesso e mai attuato. Così il ministro Lorenzo Fontana, in un crescendo parossistico, spiega che ci sono “i segnali di un allarmante odio religioso contro i cristiani anche a casa nostra”, come se Termini fosse Colombo e Roma lo Sri Lanka. Quando invece l’unica cosa che ha a che vedere con il cristianesimo, in questa misera faccenda tra senzatetto – come ha spiegato la questura – sono evidentemente i due poveri cristi che si sono affrontati in quel buco nero che è Termini di notte, un mondo feroce in cui ci si contende a fil di coltello un millimetro di marciapiede, un cartone per dormire, una sigaretta, e una collanina con il crocifisso.

 

Quale paese, viene da chiedersi, è in grado di offrire ai suoi cittadini un rito così mirabilmente gratuito, una gestualità politica così depurata d’ogni senso? Salvini e Di Maio litigano su fatto che non esiste, vedono un’emergenza che non c’è, e riducono una questione che avrebbe dignità storica e sociologica in un festival di pernacchie e muscoli di cartone, una rappresentazione da paese impazzito, che fa il verso alla politica vera e alla tragedia vera. Oggi è stato il turno della guerra religiosa a Termini, dello “sgozzamento” di un cristiano, ma la settimana scorsa c’era la storia dell’islamico con la spranga che però forse in realtà non aveva aggredito nessuno, e domani chissà su quale altro fatto di cronaca più o meno fasullo ma suggestiva i compari/avversari del governo decideranno di attaccare la loro rivalità elettorale e la paura che l’uno ha dell’altro.

 

E però la vicenda di Termini non contiene solo il pretesto ma, come una matrioska, nasconde e rivela anche il disastro di questi due leader di partito che non lasciano praticamente passare giorno senza metter su una nuova piroetta, una capriola temeraria, un gesto simbolico, pur mantenendo la più totale immobilità: il caso Siri di cui i 5 stelle chiedono le dimissioni e il caso Raggi di cui è la Lega a chiedere le dimissioni, e poi le minacce che ciascuno dei contendenti fa nei confronti dei provvedimenti dell’altro, tutta un’infinita e stordente campagna elettorale apparentemente senza strategia e orizzonte. Una competizione da spadaccini ciechi che s’inseguono con fendenti all’impazzata sulle tavole di un palcoscenico, con due capipopolo dal metabolismo accelerato, disposti a sfidare il ridicolo pur di solleticare il disagio reale di un paese frastornato, in cui si avverte quel brontolio di pancia che dalla periferia di Torre Maura fino alla centralissima Termini è il prezzo del nostro ritardo multietnico. Ci sarebbe da ammirarlo questo miracolo di chi riesce a stare al governo senza dover fare i conti mai con niente, né con la storia né con la politica, né con la grammatica né con l’italiano. Figurarsi con la realtà.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.