Giuseppe Conte a Reggio Calabria per il Consiglio dei ministri (foto LaPresse)

Così Salvini accolla allo stato il debito della sanità calabrese

Valerio Valentini

Dopo Roma, l’Italia. La Lega che invoca l’autonomia promuove la deresponsabilizzazione degli enti locali. Lo scontro al Mef

Roma. Quei soliti pezzi di m... del Mef, anche stavolta ci hanno provato fino all’ultimo, a dissuadere gli esponenti di governo grilloleghisti a lanciarsi nell’ennesimo azzardo. E però, a giudicare dalle bozze del decreto approvato giovedì dal Consiglio dei ministri riunitosi in via straordinaria nella prefettura di Reggio Calabria, gli sforzi dei tecnici di Via XX Settembre sono rimasti inascoltati. E così, dopo Roma, anche la Calabria: ancora una volta i debiti locali diventano, come per magia, debiti statali. Nel provvedimento voluto dal ministro della Salute Giulia Grillo “per salvare la sanità calabrese”, è stato infatti mantenuto l’articolo che prevede la gestione straordinaria del debito contratto in decenni di pessima amministrazione della regione Calabria in tema di sanità, e che trasferisce in capo allo stato tutto il debito pregresso. E non sono pochi spiccioli, basti pensare che la Ragioneria dello Stato stima un disavanzo di circa 170 milioni l’anno. “L’intervento dello stato era doveroso”, ha esultato Matteo Salvini, commentando il decreto. E certo deve essere una vittoria bizzarra, questa, per il leader di un partito che si professa federalista.

  

Il provvedimento prevede che, laddove emergano irregolarità nella gestione dei bilanci o disfunzioni nell’erogazione dei servizi sanitari, allora il commissario straordinario e quello ad acta potranno “disporre la gestione straordinaria dell’ente, alla quale sono imputate, con bilancio separato rispetto a quello della gestione ordinaria, tutte le entrate di competenza e tutte le obbligazioni assunte fino al 31 dicembre 2018”. Insomma, i commissari a cui la Grillo affiderà il compiuto di evitare il tracollo della sanità calabrese, non faranno altro che creare una sorta di “bad company” che dovrà accollarsi tutte le passività accumulate, che così ricadranno sulla contabilità generale dello stato. La gestione straordinaria verrà affidata ad un “commissario straordinario di liquidazione”, che dovrà poi elaborare un “piano di rientro aziendale”. Il tutto, però, attraverso “l’apertura di una apposita contabilità speciale”: cosicché il piano di rientro assorba, “anche in deroga alle vigenti disposizioni di legge, tutte le somme derivanti da obbligazioni contratte, a qualsiasi titolo, alla data di entrata in vigore” del decreto.

 

I motivi della contrarietà dei tecnici del Mef non stavano certo nel loro disinteresse circa le sorti della sanità calabrese. I problemi erano semmai altra natura. Da un lato c’era un problema strettamente contabile, legato al fatto che il provvedimento finirà con l’appesantire ancor più il debito dello stato. Dall’altro, il timore più concreto aveva a che vedere col metodo: se passa il principio che a provvedere ai guai finanziari della sanità regionale sia l’amministrazione centrale, s’innescherebbe un pericoloso incentivo alla deresponsabilizzazione degli enti locali. Proprio ciò che Salvini dice di volere combattere, a parole, attraverso l’autonomia differenziata. E invece, mentre Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna attendono ancora risposte concrete sul tema del trasferimento delle competenze (giovedì, l’audizione in Parlamento di Giovanni Tria ha rinnovato i dubbi circa la possibilità di seguire un iter rapido), la Lega promuove un provvedimento che va nella direzione esattamente opposta: l’autonomia è insomma solo quella di scialacquare, tanto poi a ripagare i danni ci pensa lo stato.

 

Non è una novità, del resto. Il precedente è anzi assai famigerato. Nell’estate del 2008, infatti, l’allora maggioranza di centrodestra – e anche in quel caso la Lega che gridava contro “Roma ladrona” era al governo – approvò il decreto con cui si istituiva la “Gestione commissariale” del debito di Roma: proprio quello che avrebbe accollato allo stato l’onere dei 300 milioni annui di passività del Campidoglio. E proprio quello, peraltro, su cui in queste settimane il governo finge di litigare. “I soldi per Roma se li sognano”, dice ora ai suoi parlamentari Salvini, riferendosi agli alleati del M5s. Ma non solo parla come se non fosse il vicepremier del governo che ha dato in via preliminare il via libera a questa rinegoziazione del debito romano, ma si mostra orgoglioso – forse nell’ansia di racimolare consensi anche in Calabria, in vista delle europee – per avere avallato un nuovo caso di mala gestione di risorse pubbliche, i cui effetti vanno a discapito delle amministrazioni virtuose.

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