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Il nulla cosmico del M5s dietro il declino di Roma

Salvatore Merlo

Le imprese evocano la piazza contro Raggi. La Capitale non trova alternative al modello economico distributivo

Roma. Confluenti e mai confliggenti per storia, tradizione, antropologia, se gli imprenditori romani arrivano al punto di alludere a manifestazioni di piazza contro Virginia Raggi, come hanno fatto ieri, se dopo tre anni dalle elezioni vinte dal M5s evocano pur con timidezza inedite forme di protesta, questo rende bene l’idea della disperazione cui sono spinti dalla giunta e dalla crisi economica che a Roma assume sempre più dimensioni meridionali. Il prodotto interno lordo della Capitale d’Italia, secondo i dati della Camera di commercio, è ancora 2,1 punti sotto lo stato precedente alla grande crisi del 2008. Milano, il termine di paragone più ovvio, è a +18,4. “Roma è ferma. Produce appena il 9 per cento del pil nazionale, contro una media delle altre capitali europee come Parigi e Berlino che si attesta al 20 per cento”, ha detto ieri Filippo Tortoriello, il presidente di Unindustria, la Confindustria romana, nel corso di una conferenza stampa con i rappresentanti di tutte le associazioni imprenditoriali: i costruttori dell’Acer, Coldiretti, Confcommercio, Confesercenti, Cna e Federlazio. “Il nostro è un appello all’amministrazione. La perdita di competitività ci preoccupa. E purtroppo finora non abbiamo trovato ascolto”. Gli imprenditori si accontenterebbero di poco, ovvero di investimenti pubblici e di una burocrazia meno lenta e timorosa. Ma la questione è molto più grave. A Roma è saltato il modello distributivo, quel sistema economico basato sul rapporto privato, ma ben foraggiato dal denaro pubblico, che aveva retto dal primo Dopoguerra in poi. Il M5s che si è trovato a governare a cavallo di questa immensa trasformazione ha dimostrato di non avere nemmeno contezza del problema.

 

Il sistema economico della distribuzione è irriproducibile nell’epoca dei vincoli di bilancio e dei patti di stabilità. Per questo le elezioni comunali del 2016, poi vinte da Virginia Raggi, erano state un’occasione. L’antico sistema ormai economicamente insostenibile, fonte d’inefficienza, corruttela, sprechi e pigrizie speculative era saltato per aria, e la città – mentre la ripresa economica iniziava a fare capolino, assieme alla curiosità degli investitori internazionali – avrebbe anche potuto tentare di entrare in quella logica di competizione moderna e di mercato che le è da sempre estranea per carattere, storia e secolare attitudine a un condursi furbo, passivo e prudenziale.

 

Nel 2016 il fondo sovrano del Qatar aveva comprato l’Hotel Excelsior di via Veneto. E intorno alla società Aeroporti di Roma, controllata dalla famiglia Benetton, si stava condensando l’interesse degli arabi di Abu Dhabi, e dei fondi d’investimento cinesi. Ma Roma, attraversata dal tramestio giudiziario di Mafia Capitale, in un groviglio di strepiti e spasmi nervosi ha divorato se stessa, avvolgendosi in una spirale di rumorosa e paradossale inerzia, con un’amministrazione priva di qualsiasi idea, spaesata di fronte a una sfida – quella di governare – evidentemente più grande di lei. Un’amministrazione capace di rinunciare alle Olimpiadi, di pasticciare sullo stadio della Roma, inadeguata al contesto storico che avrebbe richiesto invece la competenza e il coraggio di offrire un modello economico alternativo a un tessuto produttivo privato che in città è quello che è, cioè una classe dirigente imprenditoriale troppo provinciale, specialmente dopo l’uscita di scena dei colossi pubblici e il manifesto disinteresse di Francesco Gaetano Caltagirone. Un mondo piccolo, in difficoltà, e non più sostenuto da un solido sistema bancario da quando Banca di Roma si è fusa in Unicredit. Così ben presto la Capitale, proprio quando avrebbe potuto ristrutturarsi, si è invece scoperta sprovvista delle antenne necessarie a intercettare, dirigere, accogliere, guidare persino quegli ancora vaghi eppure attivissimi interessi che si sarebbero potuti attirare dall’estero, consegnandosi invece a una degradante spirale di inefficienze amministrative, travolta dal deperimento organico del suo stesso sistema economico che oggi trova la sua orribile metafora nelle aziende municipalizzate – ottanta scatole societarie che fanno del comune di Roma il terzo datore di lavoro dopo Poste e Ferrovie – con gli autobus che vanno a fuoco, tre centralissime fermate della metropolitana chiuse e la spazzatura per strada. “Non siamo qui per chiedere le dimissioni della sindaca”, dicevano ieri gli imprenditori. Eppure sarebbe un inizio.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.