Luigi Di Maio a L'Aquila (foto LaPresse)

Il post-Abruzzo del M5s

Valerio Valentini

Il Movimento vittima delle sue contraddizioni di lotta e di governo. Cronaca di una surreale analisi della sconfitta

Roma. E’ improbabile che si sia ricordato di un vecchio adagio di Alfredo Reichlin, per cui non perdere le elezioni, ma sbagliare l’analisi, è il peggiore degli errori che un politico possa commettere. Ci sta, più semplicemente, che il silenzio di Luigi Di Maio, sia dovuto soltanto all’imbarazzo: quello di chi, di fronte al fallimento, non trova il senso delle cose. A ventiquattro ore dalla chiusura delle urne in Abruzzo, in cima alla bacheca Facebook del capo politico del M5s campeggia ancora la foto di Simone Cristicchi: “La canzone che più mi piace di Sanremo è questa”. Abbi cura di me, appunto. Non un granché, per spiegare le ragioni della dissipazione di quasi 160 mila voti rispetto alle politiche del 4 marzo del 2018, un calo di 26 mila preferenze se confrontate con quelle delle regionali di cinque anni fa. Niente: non una indicazione, non una dichiarazione. Un senso di straniamento si percepisce all’apertura del Sacro blog: dove, a sera, si parla di acqua pubblica. Ed è insomma nel mutismo dei vertici che, per tutta la giornata, risuonano i malumori delle truppe. E ovviamente c’è, scontata, la rivendicazione orgogliosa di chi ci tiene a ribadire il suo “ve l’avevo detto”. Le prime a commentare sono non a caso le due senatrici dissidenti, Paola Nugnes ed Elena Fattori, che parlano di una giusta, scontata punizione dovuta al “tradimento della nostra identità”. E però, dall’altro capo del malcontento, c’è chi le cause della sconfitta le rintraccia non già in una perdita dello spirito guerriero delle origini, ma semmai nella mancata transizione: “E’ che la gente ci ha mandato al governo per cambiare le cose”, dice Stefano Buffagni

 

 

Di certo, in ogni caso, c’è che la doppia natura – di lotta e di governo – non è sostenibile. Di Maio e Davide Casaleggio hanno cullato per mesi l’improbabile ambizione di trasformare un movimento fiorito all’ombra del “vaffanculo” in un partito moderato, centrista, responsabile. E quanto l’operazione cerchiobottista sia riuscita, prima ancora che nel 20 per cento racimolato nelle urne, la grillina Sara Marcozzi doveva averlo capito nel fatto che a contestarla, durante la campagna elettorale, erano stati sia gli ambientalisti delusi per il mancato blocco del gasdotto Larino-Chieti, sia i lavoratori delle piattaforme petrolifere che rischiavano di restare a casa dopo la norma che sospendeva le trivellazioni nell’Adriatico.

 

 

Ed è da questa improvvisa crisi d’identità che lunedì sono scaturiti i commenti più sgangherati. Eclissatosi il capo, cuor di leone, e latitando pure Di Battista, il guerrigliero della giungla guatemalteca tornato in patria con la messianica aspirazione di risollevare le sorti del M5s, Gianluigi Paragone, dopo avere accompagnato il suo leader nazionale in giro per mari e per monti tra L’Aquila e Pescara, ha pensato bene di liquidare tutto come “voto marginale”; dopo avere irriso quelli del Pd, che scaricavano la colpa della propria sconfitta sull’ignoranza del popolo, non ha indugiato nell’argomentare che il risultato di domenica “dice che gli abruzzesi sono soddisfatti della gestione del centrosinistra e di quella del centrodestra nel recente passato”, e che insomma ben gli sta, visto che “non hanno voglia di cambiare”. Poi, per non fare sfigurare una simili analisi, è arrivato anche Francesco D’Uva, che s’è lasciato assalire dal dubbio. “Abbiamo forse la ‘colpa’ di star facendo tanto in poco tempo?”. Arguto, il capogruppo alla Camera ha elencato gli “importanti risultati” raggiunti dal M5s in questi mesi, e poi ha fatto autocritica: “Non ci siamo mai fermati un attimo a spiegare bene tutto quello che siamo riusciti a fare per i cittadini. Perché con impegno e sacrificio, dopo ogni singolo provvedimento portato a casa, ci siamo sempre buttati a capofitto per (sic) approvarne uno nuovo”. L’altro capogruppo, intanto, il senatore Stefano Patuanelli, che insieme allo stesso Buffagni provava a incalzare la Lega, ci metteva una pezza: “Salvini è il capo di una forza politica in evidente ascesa. Ma sa perfettamente che scaricare il M5s avrebbe ripercussioni molto forti anche sul suo elettorato”. Una dichiarazione che, rimbalzata sui cellulari dei ministri leghisti, è stata commentata così: “Praticamente, ci stanno chiedendo di non abbandonarli”. E del resto Salvini, dal canto suo, aveva già fatto di tutto per rassicurare i grillini, di prima mattina: “Gli amici del M5s non temano, per il governo non cambia nulla”. Una cortesia perfino eccessiva: Di Maio, ora, sa che può stare sereno.

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