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Provare a rispondere a una domanda: cosa resterà del congresso Pd?

David Allegranti

I sovranisti imbruttiti contaminano il dibattito pubblico, i Dem si avvicinano alle primarie per litigare ma senza discutere

Roma. I sovranisti imbruttiti contaminano il dibattito pubblico con le loro ansie demagogiche per gli stipendi e le pensioni altrui, in definitiva sanno solo parlare di quattrini. Quattrini che non sono loro ma che sentono di poter sindacare, perché ormai tutto è legittimo e permesso: questa è l’epoca in cui Laura Castelli crede di essere Quintino Sella, Antonio Maria Rinaldi pensa di essere Joseph Stiglitz e Alessandro Di Battista una reincarnazione di Nicolás Gómez Dávila. I sovranisti imbruttiti mettono Paolo Savona alla Consob, Marcello Foa alla Rai, c’è Carlo Freccero che viene scambiato per genio (forse due decadi fa) con tutta quella prosopopea da società dello spettacolo in ritardo di sessant’anni.

   

Bene, e allora il Pd? (Stavolta qui la domanda appare legittima e pertinente). Il Pd celebra con un anno di ritardo la propria ripartenza, con un congresso che giunge un anno dopo appunto la celebre cenciata del 4 marzo. I candidati e i rispettivi staff s’accapigliano sulle percentuali dei circoli – il 47 virgola qualcosa, il 35 virgola qualcos’altro – e a quasi nessuno sembra importare che la soglia del 50 per cento sia rimasta intonsa. Volano tweet velenosi, ma solo quelli; non sedie, non tavoli, che pur avrebbero una loro dignità nello schianto, ma hashtag sparati in Rete nella speranza che qualcuno di questi diventi virale, la preghiera mattutina del comunicatore moderno: essere trending topic. Non ci sono grandi dibattiti, non si parla di globalizzazione, di immigrazione, di riforme costituzionali, di mercato del lavoro, lo spirito del tempo è altrove. Non si parla di liberalismo, di socialdemocrazia, di organizzazione di un partito che sui territori viene superato dalla Lega, basti vedere l’ex rossa Toscana dove il partito di Matteo Salvini si prende le vecchie sedi del Pd e ci inaugura una sua sezione, un’immagine potente di egemonia culturale. Si discute molto, sì, di un’alleanza con i Cinque stelle, ma senza nemmeno farla diventare una discussione vera, sistematizzata; ci sono abboccamenti, si sa che c’è un candidato contornato da dirigenti del Pd convinti che il M5s sia una costola della sinistra e che possa essere usato – con il rischio di farsi usare – per rompere l’alleanza felpastellata. Non c’è un dibattito internazionale e internazionalista, al massimo ci sono dei “cancelletti” su Twitter per uscire dai confini della bolla virtuale, c’è molta indignazione ma senza una vera incazzatura; i parlamentari, i dirigenti, i candidati del Pd sono molto indignati per le sortite del governo Conte (e a loro volta i membri del governo sono indignati per quello che succede in Italia, come se fossero ancora all’opposizione; “e allora il Pd?”, appunto, anche se qui la domanda è sbagliata).

    

Una delle cose che colpiscono di più del dibattito pubblico, non solo del Pd, è la totale assenza di un registro linguistico ampio. E siccome i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo, come già insegnava Wittgenstein, colpisce l’incapacità di leggere e descrivere i fatti se non attraverso le lenti dell’indignazione, della rabbia, del rancore, del livore; per non parlare di quelli che non solo non usano altro registro che non sia quello dell’indignazione, della rabbia, del rancore e del livore ma non sanno neanche distinguere l’ironia, quando la incontrano, che è potente e permette di sopravvivere alla retorica e alla depressione quotidiana.

    

In definitiva al congresso del Pd manca la visione apocalittica per capire che i sovranisti rischiano di restare al loro posto a lungo senza un’alternativa valida e manca anche lo spirito per sopportare una simile ipotesi, due cose che procedono in direzioni contrarie e opposte ma senza le quali non si può vivere. Vale per la società ma anche per i partiti politici, che fino a prova contraria sono piccoli corpi sociali formati da persone.

   

Ognuno in questi mesi si è portato via un pezzetto del Pd. Se lo è portato via Matteo Renzi, il convitato di pietra del congresso, sul punto di andarsene ma non subito; con l’anno nuovo. Anzi non con l’anno nuovo, ma con le Europee. Anzi, non con l’Europee, ma… Il decisionista non sa più decidere, forse. Ha un libro in uscita e un tour che lo aspetta, i comitati di Ritorno al Futuro a far da architrave territoriale del nuovo possibile partito, le elezioni amministrative e quelle brussellesi per dimostrare che non era lui il problema, che il Pd perde comunque. Ma se lo sono portati via anche tutti quei leader che provano a tornare, a riemergere, sono ormai diventate riserve della Repubblica; affidano le loro memorie da Palazzo Chigi alle case editrici, con una certa epica americana da studio ovale, e alle interviste in cui spiegano come va il mondo, vedi Massimo D’Alema, il cui repertorio da finto distaccato è ormai un sottogenere letterario: “Ormai faccio il pendolare con il mio ufficio a Pechino” (2019). “Sono sbarcato all’alba dall’Iran, dove Vodafone non prende” (2016). “Se vogliono rottamarmi devono inseguirmi in giro per il mondo, perché ho impegni internazionali” (2010).

   

C’è poi l’allegro agente esterno, il papa straniero. Insomma c’è Carlo Calenda, il cui ruolo nel congresso del Pd non è ancora chiaro; stimolatore, disturbatore di manovratori con fin troppo margine di manovra; risorsa come un tempo lo furono tutti quelli che stavano per essere congedati (“Sei una risorsa” è l’anticamera della defenestrazione). Propone ottimi manifesti europeisti e listoni europei senza considerare, come nota Antonio Funiciello, il contesto proporzionalista, che impone il ricorso a listoni e a un mucchio di listini per fare il pari con gli altri. Si è iscritto al Pd giusto in tempo per dire che è un partito finito, che va superato. Vede Renzi come un concorrente (e lo è) e prova a batterlo sul tempo (e non è detto che non ci riesca). Anche lui, insomma, prova a portarsi via un pezzo del Pd. Sicché, come nei “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie, non ne resterà più nulla. I Dieci piccoli indiani sono, naturalmente, i Democratici. “E poi non ne rimase più nessuno”. Alla fine il primo a non essersi voluto bene è il Pd.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.