Il ministro degli Affari Regionali, Erika Stefani (Foto LaPresse)

“L'autonomia non si annacqua e non si rimanda”, dice Stefani

Valerio Valentini

Parla il ministro degli Affari regionali: “No a compromessi al ribasso e basta attese, altrimenti ne trarrò le conseguenze”

Roma. Se le si dice che il 15 febbraio si comincia, lei subito corregge: “Si è cominciato da un pezzo ormai. Il 15 semmai si arriva alle battute finali”, dice Erika Stefani. E con lo sguardo indica i tre faldoni accatastati sulla sua scrivania, uno per ogni regione. “Veneto, Lombardia ed Emilia vogliono risposte concrete”, spiega la ministra per gli Affari regionali. “L’autonomia non si annacqua e non si rimanda. A metà febbraio il testo passerà in Consiglio dei ministri, e su questo siamo tutti d’accordo”. 

 

A parole, parrebbe di sì. “Le parole contano, quando si è ministro. E io mi fido, appunto, di ciò che ha detto Luigi Di Maio quando è venuto a Treviso, nel dicembre scorso: e cioè che, anche lui, l’autonomia vuole realizzarla ‘il prima possibile, senza se e senza ma’. Bene, ora ci siamo”, afferma la quarantasettenne leghista, vicentina di Trissino, che in questo gennaio piovoso dice di ritrovare qui a Roma qualcosa del clima della sua terra. “Abbiamo atteso com’era doveroso che si sbrogliasse la matassa della Finanziaria, con la lunga trattativa con Bruxelles. Poi c’è stato l’impegno sul decretone per il reddito di cittadinanza e quota cento. Adesso, se dopo avere superato anche le resistenze delle strutture tecniche di molti ministeri dovessero sorgere altri ostacoli, ci sarebbe un problema serio”. Allude a scenari foschi per il governo? “Se dopo averci messo la faccia si optasse per un compromesso al ribasso, ne trarrei le conseguenze”. Sta dicendo che è pronta a dimettersi? “Sto dicendo che ci sarebbe un problema serio”, ripete la Stefani.

 

E nel farlo sembra quasi sciogliere un crampo, un brivido di tensione, stretta com’è stata per mesi tra l’ostruzionismo più o meno esplicito di una buona parte del M5s e l’impazienza dei governatori Attilio Fontana e Luca Zaia. “La legge delega avrebbe senz’altro garantito un percorso più rapido. Ma sarebbe stata a rischio d’incostituzionalità perché il trasferimento di competenze deve avvenire, stando all’articolo 116 della Carta, con una legge e non con un decreto”.

 

Una legge, peraltro, da approvare con maggioranza assoluta: e al Senato i numeri sono assai risicati, anche perché una pattuglia di grillini si è già pubblicamente schierata contro. “Quella che arriverà alle Camere sarà una proposta vagliata da tutto il governo, con la firma dei presidenti delle regioni e del premier Giuseppe Conte. Ognuno sarà chiamato a prendersi le proprie responsabilità. Detto questo, confido anche nella coerenza delle varie forze politiche: ricordo che M5s e Forza Italia si sono in più occasioni schierati al nostro fianco in questo percorso. Quanto al Pd, governa una delle regioni che chiede l’autonomia. Cioè l’Emilia. Insomma non è una proposta di bandiera, solo della Lega”. C’è però chi parla di “secessione”. “Ma se io secessionista non lo sono mai stata!”, protesta allora il ministro. “E poi quella – aggiunge – è una fase superata. La verità è che si sta recuperando una dialettica desueta per porre delle obiezioni strumentali. Forse, semplicemente, perché si parla di questa riforma senza davvero conoscerla”.

 

Porterà a un travaso di risorse dal sud al nord, secondo i critici. “Non è così. Ci sarà innanzitutto una prima fase attuativa in cui, per ciascuna delle competenze da trasferire, individueremo qual è la spesa storica, cioè quanto, di fatto, lo stato ha speso nell’ultimo anno per finanziare quel servizio. A quel punto, nell’anno seguente, la regione che lo richiede potrà trattenere sul territorio le risorse equivalenti a quella spesa, erogando in autonomia quello stesso servizio. Tutto a saldo zero. Sarà una sfida per le regioni, perché dovranno sforzarsi di essere più efficienti per evitare di sforare. Dopodiché, in questa fase di transizione, la mia proposta prevede che si individuino i fabbisogni standard per tutte le venti regioni, da applicare poi nell’arco di cinque anni”.

 

Si tratta di una media nazionale? “Non proprio, perché bisognerà ovviamente tenere conto delle esigenze minime di vari territori (i cosiddetti livelli essenziali delle prestazioni) e delle loro specificità: gli spalaneve di cui necessito a Livigno non sono quelli che mi servono a La Spezia. E al contempo, se la spesa per l’istruzione è più alta in Campania che non in Lombardia, di questo bisognerà tenere conto almeno in una fase iniziale, per poi procedere, appunto, a un riequilibrio graduale nel corso dei cinque anni. Ma sempre garantendo i livelli essenziali. Dopodiché, non è tutta una questione di risorse finanziarie”. No? “No. Molte delle ventitré competenze rivendicate dalle regioni hanno a che fare con un trasferimento di attribuzioni amministrative: snellire la burocrazia, semplificare, accelerare. E se un’impresa veneta o calabrese otterrà permessi in tempi più rapidi, a beneficiarne sarà l’intero paese”.

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