Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio (foto LaPresse)

L'arci-Italia a 5 stelle svela la retorica del popolo onesto contro la casta

Salvatore Merlo

Di Maio, Dibba, gli impicci di famiglia e la diversità antropologica. Da Mani Pulite ai grillini è peggiorata solo la grammatica

Roma. “I ladri!”, “i corrotti!”, “i figli di mignotta!”, di là. “La gente!”, “gli onesti!”, “i poveri figli di mamma!”, di qua. Ciascuno è libero di sentirsi parte di un mondo migliore e di dannare quello peggiore. Ma dovrebbe riflettere. Già fin dall’inizio di questa vicenda che si è conclusa con Luigi Di Maio proiettato a Palazzo Chigi, l’espressione “cittadino a Cinque stelle” – inteso come il deputato e il senatore – aveva un che di pretenzioso, dunque di sospetto: perché dovrebbero essere diversi dal mondo e dalla società che li esprimono? Poi sono andati al governo. E con loro si sono rivelate anche le loro storie famigliari e arci-italiane, quelle di Di Maio e adesso quelle di Alessandro Di Battista. Ma non solo. 

 

Così, lentamente, è andata srotolandosi sotto i nostri occhi una società civile (o incivile, fate voi) capace di coltivare una deontologia che regolarmente si presta a essere tradita. A volte infatti i cittadini a cinque stelle si fanno ampliare un fabbricato nell’orto di casa di papà da un geometra, altre volte hanno una mamma in una casa popolare alla quale tuttavia non avrebbero diritto, in taluni casi dovrebbero restituire parte degli emolumenti ma non lo fanno, altre volte ancora sono soci di un padre che ha debiti con il Fisco. Dunque da piccoli imprenditori non pagano i fornitori, evadono le tasse, hanno lavoratori in nero, e intanto lottano per il potere al popolo contro la casta ma sono comandati da un imprenditore in totale conflitto d’interessi che è diverso da Carlo De Benedetti o da Silvio Berlusconi soltanto per il fatto (certo non secondario) di non aver mai avuto successo in vita sua se non per via ereditaria e attraverso la politica (nella quale però non entra direttamente preferendo influenzare il partito creato dal babbo Gianroberto senza doversi mai misurare con il consenso e la trasparenza).

 

Al mondo esistono i coraggiosi e i vili, gli onesti e i disonesti, i trafficoni e quelli che riposano in pace con la loro coscienza, esistono anche i santi e, come ricorda Dostoevskij, esistono persino una certa quantità di indemoniati. Ma alla fine quasi tutti fanno la fila al casello, la sera guardano – a proprio rischio – Massimo Giletti in televisione, insomma quasi tutti nascono nel peccato originale e variamente verranno salvati. E infatti l’antropologia famigliare scalcagnata dalla quale provengono sia Luigi Di Maio sia Alessandro Di Battista, ma non solo loro, il cosmo arci-italiano delle piccole furbizie, delle acrobazie contro il fiscalismo dello stato, dei debiti e dei conti che non tornano mai, non scandalizza nessuno, ovviamente. Non scandalizza nessuno tranne Di Maio e Di Battista che – lo scopriamo adesso grazie alle inchieste di tv e giornali – hanno evidentemente costruito tutta la loro filosofia politica contro se stessi, contro il loro ambiente di origine e addirittura contro i propri genitori che sono un legno storto, come tutti gli esseri umani. Quello che infatti non è umano, cioè nemmeno intelligente, è pensare che esista un popolo onesto in contrasto con una politica corrotta. Come se politica e società civile, politica e popolo, imprenditori e deputati, bidelli e senatori, non facessero parte dello stesso consorzio umano, che è imperfetto ma funziona in base a regole condivise, non sempre da tutti rispettate, ma senza divisioni di specie. La società e il popolo non sono più nobili della loro rappresentazione politica, ne sono lo specchio, che abbiano una, due o cinque stelle. Si cominciò con le monetine gettate in testa a Craxi, con Piercamillo Davigo che già allora diceva “siamo i migliori” mentre i leghisti, gli stessi che sarebbero finiti con i diamanti in Tanzania e il tesoriere ai ceppi, agitavano il cappio in Parlamento. Poi vennero i girotondi, i puri, i fan di Nanni Moretti, i sanculotti vestiti da damine… Alla fine sono arrivati Di Maio e Dibba, con i loro papà, e l’attenuante almeno di essere dei diversamente alfabetizzati.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.