La "Summer of love" dei liberali in posa

Guido Vitiello

Pensavamo di difendere la libertà come fossimo a Woodstock, faremo la fine dei calchi di Pompei

Per un teenager liberale era come essere a Woodstock. Non avevo neppure vent’anni, e nel salone del Collegio Nazareno, a Roma, erano accorsi almeno in cento – e fidatevi, già sopra i dodici per i liberali è una Woodstock – ad ascoltare una conferenza di Antonio Martino. C’erano anche delle donne, giovani per giunta, cosa insolita per quei ritrovi liberoscambisti frequentati da maschi misantropi e larvatamente misogini. Doveva essere il 1995, la nostra “Summer of Love” ritardataria, il nostro Be-in senza corone di fiori. Ricordo il fremito galvanico che percorse la folla assiepata nell’aula magna quando Martino – ed era come ascoltare Timothy Leary che arringava gli hippy di San Francisco al grido di turn on, tune in, drop out – proclamò che il liberale deve saper essere conservatore per difendere libertà già acquisite, radicale per conquistarne di nuove, reazionario per recuperare quelle smarrite, rivoluzionario se non ci sono alternative. Davanti ai nostri occhi si disegnava la sagoma ideale di questo Proteo moderno, un eroe politicamente metamorfico che doveva, seguendo le movenze capricciose della storia, assaltare la Bastiglia o gridare Vive le Roi!, addestrarsi col fucile nella Sierra Maestra con tanto di barba o spalleggiare la guardia batistiana – sempre cangiante, sempre irriconoscibile, con la sola stella fissa della libertà.

 

Non girava Lsd nella nostra Woodstock, ma era nondimeno una grandiosa, coloratissima allucinazione. Con gli anni avrei dovuto constatare, a malincuore, che salvo eccezioni – allenate per lo più nella palestra di Marco Pannella – i liberali italiani non erano proprio la stirpe di Proteo, ricordavano piuttosto una graziosa galleria di quelle che negli spettacoli di fine Ottocento si chiamavano poses plastiques: ballerine in calzamaglia che impersonavano come statue viventi gli dei e le dee dell’Olimpo. Ecco, magari i nostri crociani, einaudiani e via enumerando non avevano la calzamaglia, tutt’al più i calzini del conte Carandini, ma il principio era grosso modo lo stesso: si assume una posa narcisisticamente appagante e la si mantiene fino allo stremo delle forze, qualunque cosa accada nel mondo là fuori, rivoluzioni, reazioni, distruzioni creatrici, creazioni distruttrici. La bella statuina che andava per la maggiore, e che io stesso – pietà, pietà per la mia ridicola adolescenza! – mi sono arrabattato per anni a scimmiottare come potevo, era quella vezzosamente rétro del liberale ironico e snobissimo, “l’abito all’inglese e la battuta francese”, come sfotteva Pasolini in un epigramma – assai ingiusto, all’epoca – contro quelli del “Mondo”. Non era certo la più faticosa da tenere, tra le pose del presepe liberale. Per il costume, bastava dotarsi di qualche cravatta stravagante e di qualche accessorio incongruo o inattuale (che so, un monocolo, un orologio da tasca); per il contegno in società, buone letture, un frasario essenziale di aforismi di Flaiano, Maccari e Longanesi, una smorfia sarcastica rivolta a chiunque si accalorasse troppo per qualunque causa o – non sia mai – esortasse a intrupparsi contro qualche minaccia incombente. Levatemi tutto, ma non il ghigno di chi la sa lunga sotto i baffi!

 

Quanto a lungo si può restare in questa posa, a prender polvere? Volendo, per una vita intera, con impagabile gratificazione della vanità. Poi però, magari, si annunciano davvero all’orizzonte gli sconvolgimenti (scomodissimi) di cui congetturava Martino, e i nemici delle libertà civili, politiche ed economiche gonfiano le loro schiere come non si vedeva da decenni. Il liberale con un residuo di spirito metamorfico che fa? Porta al banco dei pegni quel monocolo che non gli fa più vedere un tubo, quell’orologio da tasca che si era ingolfato nel 1962, o nel 1994, e che non ha più speranze di segnare l’ora buia, quando dovesse scoccare. Ma i suoi amici di un tempo che restano cementati nella posa plastica lo guardano esterrefatti dal piedistallo e non lo riconoscono più: pensano che si sia ammattito, sarà la vecchiaia, che sia diventato di colpo un fanatico, un intollerante, gli scagliano addosso come fulmini di Zeus tutto il loro arsenale di aforismi. Io però penso di aver intuito la loro segreta scommessa: se mai il vulcano dovesse eruttare, la lava che ci sommergerà tutti renderà finalmente immortali le loro pose. Ecco, diranno i posteri in visita, i calchi liberali di Pompei.

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