Il ministro del lavoro Luigi Di Maio e il ministro dell'interno Matteo Salvini (Foto Imagoeconomica)

Il Pd deve essere un anticorpo della democrazia

Andrea Romano

Contro la narrazione disfattista: l’Italia non è per sempre in mano a Salvini e Di Maio 

Sul Foglio di qualche giorno fa Giovanni Orsina (storico ed editorialista di grandi qualità, e incidentalmente mio buon amico) ha raccomandato a tutti noi di metterci l’anima in pace. Traduco con qualche grossolanità, ma io l’ho capita così: l’Italia è (ancora una volta) avanguardia di una trasformazione epocale (negativa, ma tant’è); Salvini e Di Maio hanno il sostegno del popolo e interpretano lo Zeitgeist assai meglio di chiunque altro; tanto vale, dunque, scenderci a patti: riconoscere che tutto il recinto della politica è ormai definito da Lega e Cinque stelle, insegnare ai due partiti un po’ di buona educazione, provare a volgere al bene comune la loro schiacciante egemonia politico-culturale e soprattutto prender atto dell’inutilità delle nostre fregnacce antipopuliste.

 

In questi mesi mi sono spesso domandato se l’unica risposta possibile al governo del 4 marzo sia la resa. Niente di drammatico, per carità. Le opzioni a disposizione sono le più ampie e tutte attraenti: il ritorno agli studi, il tentativo di fare un po’ di soldi, la miglior cura della famiglia, la frequentazione più assidua delle passioni terrene etc. Ma anche se nella vita ci si arrende di continuo, è pur vero che lo si fa solo davanti a ciò che si considera granitico e imbattibile. E qui è davvero difficile nascondere sotto il tappeto le tante obiezioni da muovere alla tesi dell’imbattibilità grilloleghista. La prima è di carattere storico, perché talvolta la tendenza degli studiosi anche di grandi qualità è a confondere l’affermazione (storica) dei fenomeni con la loro inevitabilità e immutabilità (politica).

 

In qualunque buona biblioteca troveremmo decine di casi di vittorie politiche confuse con svolte epocali non più reversibili. Non si pensi ai totalitarismi novecenteschi, naturalmente, perché nessuno da queste parti si ritiene dotato dell’eroismo morale e personale che mosse anche il più sconosciuto oppositore di Stalin o Mussolini. Limitandoci al tempo più vicino a noi ci viene ad esempio in aiuto l’esperienza di Berlusconi, a proposito del quale proprio Orsina ha scritto il saggio di gran lunga più efficace (“Il berlusconismo nella storia d’Italia”, Marsilio 2013). Ricordiamo bene i mesi successivi alle elezioni del 1994, con l’Italia ancora beatamente priva di social ma attraversata da commenti e analisi molto simili a quelle di queste settimane: coloro che festeggiavano la vittoria del Cavaliere intimavano agli avversari di deporre le armi della polemica, prendendo atto di una trasformazione incontenibile e ormai irreversibile (tra i ricordi di quei mesi conservo – chissà perché – il titolo di un editoriale di Pialuisa Bianco sull’Indipendente dopo le elezioni europee che nel 1994 resero ancora più vasta l’affermazione di Berlusconi: “E ora tacete, cretini”); coloro che se ne dolevano, spesso si stracciavano le vesti prendendosela alternativamente con l’incapacità della sinistra di contrapporsi alla nuova destra o con la degenerazione antropologica di un’Italia ormai avviata verso il baratro della barbarie.

 

Nel mezzo: la politica lavorava, le istituzioni funzionavano e il paese reale ascoltava. E solo due anni dopo, quello stesso paese dato per perso votava l’Ulivo e il suo programma di governo. Ovvio che l’Italia del 1994-1996 sia distante dall’Italia del 2018, così com’è ovvio che il berlusconismo di allora sia tutt’altra cosa rispetto al grilloleghismo (anche se ne è stato uno degli incubatori, come scrive Orsina). Ma il confronto tra questi due passaggi storici ci racconta ancora qualcosa. Innanzitutto ci ammonisce a usare con molta cautela il paradigma dell’Italia “avanguardia dell’Occidente”: in questo nostro tempo tanto imbarbarito, al di là delle Alpi un fenomeno populista simile a quello grilloleghista è rimasto minoritario e lontano dal governo grazie sia ad un assetto istituzionale diverso dal nostro sia alla capacità della politica francese di dotarsi di risposte adeguate alla minaccia Le Pen-Melanchon; allora, nell’Italia del 1994-1996, la somma tra l’incapacità berlusconiana di produrre risultati al di là della retorica della mobilitazione permanente e la capacità della sinistra di rimettere in discussione i propri strumenti culturali e organizzativi produsse un rapido capovolgimento di equilibri all’apparenza immutabili.

 

E arrivo qui alla seconda obiezione ad Orsina, che riguarda più banalmente la politica. Perché lo Zeitgeist sarà anche quello che respiriamo ogni giorno (ma sarà poi vero che lo respiriamo, noi che ci aggiriamo tra social e giornali?), ma alla fine della fiera gli elettori in democrazia si affidano alla politica per quel poco che la politica è ancora in grado di restituire sotto forma di risultati concreti. Potrò sbagliarmi, ma la mobilitazione permanente tipica di ogni populismo autoritario (che è poi il vero modello ideale del grilloleghismo) prevale solo in assenza di due elementi: istituzioni democratiche funzionanti e verificabilità dei risultati. Con tutte le magagne della nostra Repubblica, si tratta di due elementi di cui in tutti questi anni non ci siamo ancora privati del tutto e che anche sotto questo governo di pericolosi cialtroni continueranno ad agire raccontando agli italiani una verità diversa da quella descritta da Salvini, Di Maio e perfino dai media collaborazionisti.

 

Per questo è importante che le nostre istituzioni, seppur malandate, continuino ad esercitare la propria funzione con neutralità e spirito di servizio. Perché quella loro funzione è di per sé argine ai disegni autoritari del grilloleghismo: sia quando (come nel caso dell’Istat) fotografano una realtà economica e sociale che è destinata a peggiorare sotto l’effetto delle misure sovraniste e che nessuna complice narrazione di questo o quel chierico riuscirà a capovolgere; sia quando (come nel caso della magistratura) si procede ad indagare esponenti piccoli o grandi del nuovo regime che ritengano di poter confondere legalità e propaganda. E nessuna riflessione tattica (del tipo “Salvini sarà ancora più forte da indagato”) dovrebbe arrivare ad intaccare la convinzione che lo stato di diritto si difende sempre o non si difende mai: perché è quando quella convinzione traballa che si aprono davvero le porte all’irreversibilità degli autoritarismi. 

 

Ma oltre le istituzioni c’è lo spazio assai più accidentato della politica. E qui il compito più difficile spetta all’opposizione (e dunque al Partito democratico, che nonostante sé stesso è destinato a restare il vero contraltare politico al grilloleghismo). Costruire le condizioni dell’alternativa al grilloleghismo sembra facile ma non lo è. Richiede alcune condizioni preliminari, tra cui la principale è il rifiuto della narrazione che vorrebbe l’Italia consegnata per sempre ad una banda di abili e popolari distruttori. Una narrazione pericolosa perché contiene in sé una doppia trappola: la prima è la vecchia tentazione di una certa sinistra di considerare gli italiani un popolo di creduloni intossicabili dal primo arruffapopolo che passa e proprio per questo meritevoli del peggio (il mio amico Orsina, fiero e solido conservatore liberale, forse non si è accorto di aver riprodotto nella sua analisi alcuni luoghi dell’antiberlusconismo antropologico che negli anni Novanta avrebbe consegnato l’Italia al Cavaliere volentieri e per sempre); la seconda è quella che nega a qualunque democrazia la sua naturale capacità di produrre, alimentare e ospitare alternative.

 

Proprio perché una democrazia senza alternativa politica è di per sé stessa votata al suicidio, è fondamentale che il Partito democratico coltivi ogni giorno la propria vocazione ad essere altra cosa dal grilloleghismo: dando rappresentanza parlamentare, politica e culturale agli italiani che non hanno votato Lega o Cinque stelle e agli altri che decideranno oggi o domani di cambiare idea (pochi o tanti che siano). Perché solo così il Pd svolgerà fino in fondo la propria funzione di sostegno alla democrazia italiana, oltre a difendere i propri interessi di partito.

 

Per questo le fantasie su una collaborazione tra Pd e Cinque stelle appaiono pericolose e non solo ingenuamente velleitarie: perché l’idea stessa di poter fare da puntello alla componente più “familiare” del grilloleghismo tradisce totale subalternità alla raffigurazione dell’Italia come nazione conquistata per sempre dal populismo, oltre a mostrare una fragilissima capacità di comprendere la natura del nuovo potere politico. Rifiutare la narrazione disfattista che vorrebbe l’Italia consegnata per sempre ad una banda di distruttori, uscire dal recinto dei “meravigliosi sconfitti”, avere più fiducia nella capacità degli italiani di giudicare la realtà per quella che è. In una frase, per quanto di complicata traduzione pratica: essere alternativa credibile, popolare e convincente a chi ha certamente vinto una battaglia senza aver vinto alcuna guerra epocale.