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Pure all'Economist si sono convinti che il liberalismo ha perso, colpa sua

Giuliano Ferrara

Per il settimanale austerità e populismo sono le due risposte che lo hanno colpito duramente. Non sono convinto che se le democrature vincono, hanno ragione

Io dico che ce l’ho su con i nuovi governanti per quello che sono più ancora che per quello che fanno. E mi sento rimbrottato, in nome del pragmatismo liberale, da un editorialino ben scritto dell’Economist. A Londra sono convinti che con la crisi del 2008 il liberalismo economico e sociale, che aveva dominato (così dicono) per trent’anni, eliminando comunismo e conservatorismo, è saltato in aria. Austerità e populismo sono le due risposte che lo hanno colpito duramente. E questo perché si era sentito onnipotente, un pensiero e una prassi dominanti che i liberali per primi avrebbero dovuto tenere a bada, contrari come dovrebbero essere a ogni forma di dominio monopolistico.

 

(Di passaggio l’Economist cade in una qualche ipocrisia, quando afferma che la tenda del liberalismo è molto larga e accogliente, va da Keynes a Hayek passando sopra le loro antinomie o radicali differenze, e che, per giunta, il welfare, al contrario di quanto si dice a destra e a sinistra, non è un prodotto del socialismo ma dell’eguaglianza liberale delle opportunità: forse vale per il welfare come modello astratto, di principio, ma non ne sarei così sicuro a considerarne la concreta realizzazione ed espansione nella metà del secolo scorso e anni seguenti, e quanto alle origini, bè, non si può negare un primato ideativo a laburisti inglesi e a socialdemocratici scandinavi).

 

Il punto è che se tornassero in vita i grandi maestri liberali, scrive la rivista della City, nel loro naturale antidogmatismo inorridirebbero per il fatto che, a forza di “fake news”, tempeste twittarole e post insultanti, i cittadini non si parlano più con ragione e buonafede, they talk past each other, che vuol dire: ciascuno fa il suo monologo incardinato su concetti che non hanno afferenza reciproca, incroci dialoganti, e alla fine non riescono più a distinguere ciò che dicono gli altri da quel che sono gli altri. Che è poi un altro modo di esprimere, per minarne il fondamento eventuale, il mio concettino di un’opposizione di bandiera al “cambiamento” nazionalpopulista e sovranista: criticarli per quello che sono prima che per quello che dicono o fanno. Ora, che io non sia un liberale, almeno nel senso ortodosso del termine, è fatto accertato e rivendicato, ma che il liberalismo, specie la rivoluzione neoliberista che con la Thatcher cominciò a tentare di cambiare società individuo e mondo, sia una procedura cerimoniosa, questo è un altro paio di maniche. Non è che nel 2008, per via di crisi finanziarie e recessive innescate dall’affare dei subprime, il liberalismo pragmatico si è trovato a corto di idee, implodendo a favore di austerità e populismo: credo sia più giusta un’ipotesi diversa. Non avendo realizzato il suo programma massimo, per via delle resistenze che le libertà economiche sociali e civili incontrano sempre, visto che costano in termini di protezione e richiedono uno sforzo di responsabilità, di emulazione e lotta fuori dall’orizzonte dello stato paterno, si è manifestato un rigetto su scala mondiale che non ha fermato la logica di mercato ma cerca di ridimensionarla e assoggettarla all’orbita conosciuta e rassicurante della nazione e nei casi peggiori della tribù. Il paternalismo di stato o di partito o di leadership personale furoreggia in Cina, in Russia e, nella forma dell’art of the deal, negli Stati Uniti di Trump, oltre ad affacciarsi nell’Europa dell’est e in Italia, e domani chissà, e questo non essenzialmente per i subprime o l’arroganza delle élite o il declassamento del ceto medio da effetti della globalizzazione; perché i neoliberisti e i neoconservatori alleati hanno perso molte battaglie di trasformazione nel mondo, e forse la guerra (e non per deficit di argomentazione o per mera arroganza intellettuale, ma per debilitazione politica dopo l’effimera e benedetta vittoria dell’89, dopo il ripiegamento americano post 11 settembre e post Iraq). Un occidente diviso nel contrasto al jihadismo, in cui la politica delle identità e i diritti comunitari delle minoranze attive fanno premio sulla responsabile libertà di individui e famiglie, sottilmente corrosa dal welfare com’è stato realizzato e non come doveva forse essere, con Cina e Russia (e in parte India) a rappresentare democrature più che perfette ed economie liberali più che imperfette, non poteva che postulare il ritorno virtuale allo stato padre e madre, nella forma del genitore 1 e del genitore 2, altro che virtù trasformativa del neoliberismo d’assalto.

 

Detto questo, io non nego e non annego nell’insulto l’identità dei nuovi governanti italiani: ne riconosco la legittimità di maggioranza parlamentare con basi solide nel paese, I agree to disagree, ma non accetto la loro idoneità a governare una democrazia aperta, per quello che sono, per la sostanza demagogica di come sono arrivati al potere. Non sarò perfettamente liberale, con bombetta, ma non voglio finire come un allocco.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.