Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con Luigi Di Maio durante il giuramento del governo Conte (foto LaPresse)

"Non è che siamo stati noi?"

L'affaire degli account fake contro Mattarella precipita sul M5s

Alla Camera i deputati grillini criticano i “suggerimenti” a Di Maio della Casaleggio Associati. L’indagine dei pm. Ma i tweet di Foa sono peggio

Roma. “Ma non è che sono stati quelli della Casaleggio Associati?”. La domanda se la fanno, in Transatlantico, i deputati del Movimento cinque stelle. Ed è una domanda legittima adesso che la polizia postale ha individuato in Milano il luogo da cui, nella notte tra il 27 e il 28 maggio, si attivavano circa quattrocento profili twitter ad accompagnare centinaia di messaggi d’insulti e di richieste di dimissioni scagliate contro il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, proprio nel giorno in cui Luigi Di Maio aveva chiesto la messa in stato d’accusa del capo dello stato. “Non penso che farebbero mai una cosa del genere, sapendo che si può risalire alla centrale da cui partono i finti account”, mormorano i deputati grillini, tra le cui file, non da oggi, qui e là, serpeggia un certo fastidio, sussurrato tra i denti, un lamento carsico nei confronti dell’azienda di marketing milanese che due mesi fa aveva suggerito a Di Maio – e questa invece non è una speculazione – la trovata del cosiddetto impeachment. “Un errore clamoroso”, dicono alcuni deputati del M5s, che mise Di Maio nell’angolo, e che adesso potrebbe avere un secondo effetto boomerang, se davvero (“ma non sarà così”) la polizia postale dovesse scoprire che gli account twitter, i cosiddetti troll, erano stati creati dall’azienda milanese. La sera di domenica 27 maggio fu Pietro Dettori, l’ex dipendente della Casaleggio Associati insufflato nei palazzi della politica romana, a chiudere Di Maio in una stanzetta del palazzo dei gruppi di Montecitorio, facendogli pronunciare in diretta Facebook quelle fatidiche e minacciose parole rivolte al presidente della Repubblica: “Non finisce qua”.

 

Quello di domenica 27 è un video dove Di Maio, con tono livido a coprire insicurezza, leggeva la lista dei ministri del governo Conte (che in quelle ore sembrava saltato per sempre), “una cosa tutta di pancia”, dicono anche i grillini, “un’operazione che aveva solo un sapore di marketing. Ci permetteva cioè di avere qualcosa di forte da dire in un momento molto difficile. Una scelta che di lì a poco ci avrebbe però messi nell’angolo”, bruciati da Matteo Salvini, che non avrebbe accolto l’idea dell’impeachment, “e apparentemente impossibilitati a tornare indietro perché avevamo insultato il Quirinale”. Tutto avviene in quelle ore serali tra domenica e lunedì. Dopo qualche ora dal video di Di Maio infatti, i Cinque stelle fanno sapere alle agenzie di stare “riflettendo” sulla messa in stato d’accusa. E ancora una volta è Dettori, l’uomo Casaleggio a insistere, facendo notare come l’ipotesi dell’impeachment stesse facendo molto rumore. Così, quella sera stessa, da un palco a Fiumicino, ecco che Di Maio, insieme ad Alessandro Di Battista, conferma la volontà di chiedere l’impeachment. Ed è a quel punto che parte la tempesta Twitter – che oggi la polizia rivela essere stata pilotata da account fasulli. “Funziona. Buca”. Un buon modo, pensano in quel momento i suggeritori della comunicazione del M5s, anche per stanare Salvini. Il quale in realtà tace per quasi quarantotto ore, e poi, lunedì, quando gli chiedono della messa in stato d’accusa contro il presidente della Repubblica fa spallucce e prende le distanze, sapendo che non c’è nessun dividendo politico nel dare fuoco al Quirinale, che dà l’incarico di governo e ha il potere di sciogliere le Camere. “Una vicenda dove sbagliammo tutto”, dicono adesso i Cinque stelle. “Ma che per fortuna è stata recuperata”. Salvo l’indagine della polizia postale e della procura di Roma sui quattrocento account fasulli, che ora potrebbe essere l’ultima coda di un pasticcio politico gestito con una maldestra ossessione nei confronti dei gesti comunicativi forti. Sullo sfondo, ma neppure troppo, resta la considerazione che 400 profili fasulli su Twitter non sono un fenomeno d’inquinamento della democrazia, specialmente quando quegli stessi contenuti veicolati dai cosiddetti troll venivano impugnati dall’attuale vicepresidente del Consiglio e pure dai due membri del cda Rai che la maggioranza vorrebbe indicare alla presidenza della tivù di stato, cioè Marcello Foa e Giampaolo Rossi. Cos’è peggio?