Il segretario del Pd Maurizio Martina (foto LaPresse)

Maurizio Martina vuole un Pd “senza Goldrake”. Basterà?

David Allegranti

Al Festival dell’Unità di Roma il manifesto del segretario del Partito democratico per uscire dalle palude del 18 per cento

Roma. Dice Maurizio Martina che è finita la stagione di Goldrake alla guida del Pd. “Non esiste più la storia che basta una leadership per cambiare la partita… Questo lavoro non sarà mai il lavoro di uno. Se arriva Goldrake, da solo, non ce la fa. Serve una grande operazione collettiva”. Sembra, a sentirlo parlare al Festival dell’Unità del Pd di Roma, un riferimento al suo predecessore: Matteo Renzi era Goldrake? “A parte che non so se gli piace Goldrake, magari gli piaceva fare Superman… Comunque io penso che sia un insegnamento per tutti noi. Attenzione, non è nemmeno più una questione di renziani, anti-renziani, post-renziani, pre-renziani. Basta. Basta. Basta. Sono cose che fanno incazzare noi e che fuori dal Pd non gliene frega nulla a nessuno”. Fare il segretario di partito con i sondaggi che omaggiano gli avversari e continuano a segnare per il Pd quota 18 per cento non è certo semplice. Martina lo sa e ammette le difficoltà. Dice anche che il Pd ha numerosi problemi da affrontare, di identità, organizzazione, selezione della classe dirigente, ma che anche gli strumenti per risolverli. “Abbiamo un problema di classe dirigente, non dobbiamo negarlo. Abbiamo un problema di progetto, di nuove idee e di persone. Soprattutto nel Mezzogiorno, ma non solo. Purtroppo non ce l’abbiamo fatta a tenere insieme la sfida di un partito nuovo e la responsabilità del governo del paese. Ma era una sfida enorme, in un tempo come questo”. Dice il segretario del Pd che “abbiamo faticato a costruire quel partito nuovo che sognavamo tutti insieme, quando dieci anni fa abbiamo iniziato la storia del Pd. Dobbiamo dirlo con grande onestà”. Purtroppo, dice Martina, “in questi anni abbiamo costruito dei compromessi e degli equilibri tra meccanismi insufficienti di leadership e correnti, che avevano anche la loro forza e le loro dignità in tanti passaggi ma che si sono rivelate insufficienti e spesso, ahimè, uno dei fattori degenerativi. In tanti territori siamo stati il potere nel potere. Il potere per il potere”.

 

Il Pd, dice Martina, non è stato capace di tenere insieme “un esercizio sacrosanto del potere per le funzioni che ci sono date nelle istituzioni” e un “processo di cambiamento nella società”. Riprendendo i concetti più volte espressi dal politologo Mauro Calise, nei suoi libri e nelle sue interviste sul Foglio, il segretario concorda sul fatto che c’è un problema di classe dirigente. Per questo “dobbiamo andare oltre quello che c’è, far crescere nuove leadership. A livello nazionale come a livello locale. Sono il primo a riconoscere che una leadership è fondamentale, Calise lo dice e io lo sottoscrivo. Ma Calise dice anche senza un’organizzazione una leadership si schianta. L’organizzazione è l’idea di comunità che hai, di partito. E lì che noi dobbiamo innovarci. Noi siamo vecchi rispetto alle due vere novità, i Cinque stelle e la Lega”. La Lega in particolare è stata abile nel puntare su tre asset: “Territorio, televisione e Twitter. E l’ha fatto con una leadership forte. I Cinque stelle invece hanno armato un’operazione che sappiamo tutti che cos’è”. Basta vedere i “cinque milioni di visualizzazioni sulla buffonata dell’aereo. Una vergogna da Repubblica delle banane”.

 

Detto questo, sostiene Martina, il Pd è vivo e vuole costruire un’alternativa al governo Lega-Cinque stelle. “Riconosco il vento in poppa. So che per noi si tratta di lavorare controvento, ma so anche che si tratta di seminare e di costruire oggi per domani il terreno della sfida. Perché poi i nodi verranno al pettine, quindi dobbiamo armarci di una volontà di battaglia e di iniziativa che va oltre i nostri limiti, i nostri errori, la nostra discussione interna. In nessun paese l’alternativa la si costruisce tra luglio ed agosto quando un governo si insedia a giugno”. Le aspettative sono ancora alte. Quindi serve tempo, dice Martina. “Il lavoro che dobbiamo fare noi è preparare il terreno dell’alternativa, nel conflitto con questa maggioranza e con questo governo. Non è immediato ma possibile”. Viene però da chiedersi, visto che Matteo Salvini continua a crescere, se l’elettorato non cerchi proprio quello che il segretario della Lega sta offrendo. Non è che è cambiata la domanda? Oggi si cerca protezione ed è per questo che Salvini ha soppiantato la leadership del vecchio centrodestra, che invocava rivoluzioni liberali peraltro fallite. Il centrosinistra come si può misurare con questa offerta politica? “Più in generale in Occidente, ma più nello specifico in Europa, abbiamo faticato a interpretare la nuova stagione della globalizzazione. Io sono tra quelli che pensano che la cultura progressista e democratica a un certo punto ha smesso di pensare una progettualità e una visione nuova, contemporanea rispetto ai bisogni. Noi per tanto tempo – mi ci metto pure io – siamo stati in scia rispetto al pensiero che era quello della Terza Via”.

 

Un pensiero, dice Martina, “che in sostanza immaginava di poter addomesticare un modello, quello capitalistico, nella fase degli anni Novanta, e di farlo con forti politiche redistributive, assolvendo così a una funzione socialdemocratica e progressista. Non ci siamo accorti - e qui c’è un elemento di radicalità che secondo me va introdotto nella nostra analisi - che in realtà il mondo cambiava e l’Occidente cambiava. E le domande di protezione che si sono aperte in Occidente, che sono state completamente inevase dalla cultura democratica e progressista, hanno trovato risposte solo in una nuova destra, non a caso non più la destra ultra liberista ma la destra protezionistica, dei dazi e dei confini. Insomma, non la destra del mercato unico, libero, indiscriminato”.

 

E mentre la destra è cambiata “ed è riuscita a fare egemonia nel cambiamento, la sinistra è rimasta ferma. Faccio un esempio che per me è cruciale. Siamo tutti nati, vissuti, cresciuti, dentro un’idea per me fondamentale di principio della società aperta, del cosmopolitismo, se volete dell’internazionalismo, se la prendiamo da un percorso ancora più ambizioso. Cioè dall’idea che tu devi costruire, sempre di più e sempre meglio, dei luoghi di equilibrio, di governo, di coordinamento fra i popoli, perché solo così riesci a salvaguardare pace e cooperazione. Questa idea della società aperta, che noi abbiamo giustamente rappresentato e che dobbiamo ancora rappresentare perché me non è una sfida chiusa, è un’altra grande questione che interroga il nostro modo di immaginare la nuova stagione dei democratici e dei progressisti in Europe. ma posso dire che non basta più dire ‘società aperta’ di fronte ai temi sconvolgenti che abbiamo davanti? E che quando di fronte a una destra che interpreta un’idea della protezione così radicale e così forte come quella che è accaduta e che abbiamo misurato in particolare in Italia, la nostra bandiera della società aperta se rimane quella degli anni novanta non basta più, è già stata travolta. Ve lo dico perché penso che abbiamo bisogno non tanto di discutere se scegliamo il terreno degli altri. Io voglio scegliere il terreno dei cittadini e i cittadini oggi domandano protezione e io sono tra quelli che pensano insieme a tanti altri che quella domanda di protezione non possiamo non vederla. Dico di più: quella domanda di protezione la dobbiamo prendere dal lato dei più deboli”.

 

Per esempio, dice Martina, “perché dobbiamo lasciare alla destra la questione che ci viene posta dagli operai della Bekaert di Figline Valdarno, quando ti dicono: ‘Scusami, cara sinistra, io non ho paura dell’immigrato che rischia la vita, attraversa il mare e viene qui per trovare un futuro migliore. Ho paura della mia azienda che dall’oggi al domani delocalizza, non in Cina ma in Romania, senza che nessuno apra bocca’. Quella è una domanda di protezione, di equità, di regole in un mercato aperto alla quale la sinistra deve rispondere. Sennò passa Salvini con il primo tweet e prende, come è successo, il 25 per cento a Pisa. Il tema non è rincorrerli sul loro terreno, ma costruire l’alternativa a partire da alcuni punti fermi e di prospettiva. Io credo che noi non possiamo rinunciare alla società aperta ma abbiamo bisogno di un nuovo pensiero democratico radicale. Utilizzo non a caso questo termine perché di moderatismo non ce n’è più in giro. Basta vedere che cosa è stato il voto per capire che tute le nostre discussioni sui moderati sono teorie che non rispondono alla realtà. Nella società c’è bisogno di risposte forti. Abbiamo bisogno di organizzare un’agenda di cambiamento che sfidi anche le forze di questa maggioranza sul terreno di una protezione che non sia isolamento. Sul terreno di una prospettiva che non sia il confine, la barriera e il dazio; io per primo mi devo interrogare su come si regola in forma nuova l’apertura e la dimensione della piena cittadinanza. Non lascio ad altri questo tema, io sono convintissimo che questa domanda di protezione apra uno spazio straordinario per un pensiero nuovo democratico e progressista e che l’alternativa alla protezione di Salvini con il confine sia la comunità. Fare comunità nel tempo della protezione è l’alternativa alla destra che vuole tutti divisi, individualizzati ed egoisti. E’ una partita culturale più che elettorale”.

 

Ma non che il Pd l’alternativa vuole costruirla con i Cinque stelle? “Lega e Cinque stelle stanno facendo scelte politiche all’unisono, quindi non c’è nessuna possibilità di dialogo, anzi. Io dico che purtroppo i cinque stelle si sono consegnati all’egemonia di Salvini. E quando leggo le dichiarazioni di Di Maio assecondare in maniera totale e definitiva persino i giudizi di Salvini sui fatti di cronaca di queste ore (come l’aggressione a Daisy Osakue, ndr) mi vergogno per lui. Perché in qualche modo immaginerei anche una dialettica dentro una maggioranza così particolare come questa, invece no. Per il potere si sta in coperta e si copre tutto anche quello che non si può coprire. E questo è un dato politico”.

 

Dopodiché, dice il segretario del Pd, “io non nego il fatto che se si apriranno le contraddizioni nella maggioranza sarà un bene per l’Italia, al di là di noi. Non è un problema di dialogo con il Pd. Sinceramente, noi dobbiamo fare il nostro percorso e la ricostruzione e la ripartenza del Pd poggiano sulle nostre gambe. Io non voglio nessuna scorciatoia di palazzo, penso che non serva e non mi interessa. Non è questo il tema per noi. Però un’opposizione che sa fare bene il suo mestiere deve aprire delle contraddizioni nella maggioranza. Deve lavorare perché qualche sussulto di dignità si respiri anche da altri parti. Io spero che ci siano delle voci nei Cinque stelle che a un certo punto si alzano in maniera più forte a dire ‘adesso basta’”. Anche Martina spera in Roberto Fico? “Non mi interessa personalizzare, spero che si apra una discussione fra di loro. Perché si stanno consegnando allo strapotere di Salvini. Poi decideranno il loro destino. Non mi interessa. Noi dobbiamo lavorare perché le loro contraddizioni esplodano. Questo è l’abc delle opposizioni. E’ il minimo che possiamo fare, anche se non è sufficiente”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.