Uno sciopero di riders a Milano nel 2016. Foto LaPresse

Sono solo lavoretti

Maria Carla Sicilia

Disputa su Foodora e quell’equivoco tra le aspettative dei lavoratori e la realtà di un impiego effimero

Roma. La prima sentenza sulla gig economy in Italia racconta di un paese che non ha ancora afferrato gli elementi di novità che appartengono all’“economia dei lavoretti” e rischia di perdere un’occasione. I giudici del Tribunale del Lavoro di Torino hanno respinto le richieste di sei fattorini in bicicletta contro Foodora, la multinazionale tedesca che attraverso una app offre la consegna di cibo a domicilio, ritenendo che la loro attività sia di tipo autonomo e non subordinato. I sei riders sostengono che sia stato loro impedito di continuare a lavorare dopo avere partecipato a scioperi e manifestazioni contro l’azienda e per questo chiedevano il reintegro, un risarcimento di 20 mila euro ciascuno e i contributi. In attesa delle motivazioni di merito, la sentenza assume rilevanza perché respinge la pretesa dei riders di essere considerati lavoratori dipendenti, creando un precedente per tutto il sistema della gig economy.

  

La vicenda dibattuta in tribunale inizia nell’autunno del 2016 a Torino, quando alcuni fattorini si organizzano tra loro per contrattare con l’azienda. Dopo mesi di manifestazioni, campagne social e incontri con l’azienda, i riders ottengono un aumento della retribuzione (da 2,70 euro netti a 3,60 per consegna) e la copertura dei costi per la manutenzione delle biciclette. Poi continuano a riunirsi e formano un sindacato autonomo che fa rete con diverse città e altri paesi, assumendo le sembianze del “collettivo” che ancora oggi esiste. Domenica, in un centro sociale di Bologna, ci sarà la prima assemblea nazionale, organizzata da “Riders Union”. In cima all’agenda il tema della “presunta autonomia” dell’attività dei fattorini: uno degli argomenti è che l’app utilizzata per avere informazioni sulle consegne sia uno strumento di controllo – un tema simile a quello utilizzato da chi ha criticato i braccialetti elettronici di Amazon. Il lavoro svolto, però, è su base volontaria, nel senso che ognuno dà la propria disponibilità per coprire determinati turni, e rinunciare a una giornata lavorativa non comporta ripercussioni, se non quella di non percepire compensi, come in ogni lavoro autonomo. Foodora inoltre garantisce tutele contrattuali come i contribuiti Inps, l’assicurazione Inail e per danni a terzi, come prevedono i contratti co.co.co. che usa per assumere i riders. Ma nella narrazione politica e sociale sembra che sia comunque insufficiente.

  

“Lavori di questo tipo devono essere considerati come temporanei – dice al Foglio Francesco Seghezzi, direttore di Fondazione Adapt – limitati in un periodo di tempo. Solo così possono essere compresi e inquadrati anche rispetto alle tutele che offrono. Si può discutere sulla retribuzione, in base a diversi fattori come la richiesta del servizio, e per farlo serve sviluppare una contrattazione tra i lavoratori e l’azienda. Ma le tutele contrattuali sembrano sufficienti così come sono”. Il lavoro del rider, insomma, sembra a tutti gli effetti l’evoluzione dei lavoretti svolti fino a qualche anno fa senza piattaforme digitali e spesso senza contratto di nessun tipo. Le “chiamate” hanno oggi modalità diverse – avvengono con una app – ma l’impegno richiesto è simile a quello che si può avere facendo volantinaggio, ripetizioni o simili. Il cortocircuito nasce quando a svolgere questo tipo di lavoro non sono persone in cerca di un reddito extra o di un’occupazione temporanea, ma in cerca di un lavoro che dia stabilità e prospettive, che restano evidentemente deluse. La soluzione difficilmente può essere quella di trasformare un sistema basato sulla flessibilità in un sistema rigido che offre contratti a tutele crescenti.

  

La questione è dibattuta anche in altri paesi e in Danimarca un sindacato si è accordato con la start up Hilfr, che ha riconosciuto ai propri collaboratori un salario minimo, le ferie e la copertura in caso di malattia. Tuttavia il tentativo di irrigidire le regole comporta il rischio di far crollare questa nuova “economia dei lavoretti” che potrebbe non riuscire a sostenere tali costi del lavoro e a rimetterci sarebbero le persone che oggi possono contare su questo tipo di impiego. Le risposte che cerca chi immagina di essere assunto da Foodora dovrebbero arrivare da adeguate politiche per la crescita economica e sociale del paese, non da un’azienda di food delivery. Nel resto del mondo funziona, tanto che Deliveroo è l’impresa che negli ultimi tre anni è cresciuta di più secondo il Financial Times. Foodora ha buoni risultati in Borsa e secondo Statista il mercato mondiale del food delivery varrà oltre 120 milioni di dollari nel 2018. Rinunciare a questo settore sarebbe un peccato.

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