“Modificare il sistema senza tenere conto dei cambiamenti strutturali è socialmente iniquo perché equivale a trasferire l’onere che ne deriva sui giovani” (foto LaPresse)

Non pensionate l'Italia

Elsa Fornero*

La politica torna miope e propone vecchie logiche nemiche dei giovani e dei conti pubblici

Dopo tanti annunci e promesse, l’esecutivo “del cambiamento” ha cominciato a mettere le carte in tavola: ha promesso la sostituzione in blocco di vecchie norme, considerate tutte negative, con norme nuove, naturalmente tutte positive e benevole. Non a caso, populismo fa rima con semplicismo. Apparentemente, cancellare una norma non richiede molto tempo: in teoria, al secondo Consiglio dei ministri il governo potrebbe, per esempio, approvare un decreto legge di abolizione della riforma pensionistica del 2011, la cosiddetta “riforma Fornero”. Dovrebbe però, secondo la Costituzione, anche integrare il provvedimento con una precisa indicazione dei costi e delle relative modalità di copertura finanziaria, nel quadro più generale del pareggio del bilancio secondo le modifiche alla Costituzione del 2012.

 

Di fronte ai cambiamenti strutturali, le modifiche introdotte nel 2011 hanno reso finanziariamente sostenibile il sistema pensionistico

Anche se il termine “cancellazione” è stato ultimamente sostituito con “superamento” – parola dal significato alquanto sfuggente – e anche se neppure di questo s’è fatta menzione nel discorso programmatico del presidente del Consiglio, è utile domandarsi quali risorse finanziarie sarebbe necessario reperire per “abolire la Fornero”, perché queste erano le promesse della campagna elettorale. Poiché i risparmi di spesa conseguenti a quella riforma erano stati stimati, dall’Inps e dalla Ragioneria generale dello stato (RGS), in poco meno di 80 miliardi fino al 2021 (ridotti a circa 70 al netto della spesa per le salvaguardie), l’indicazione dei 15 miliardi per il prossimo anno e dei 20 per gli anni immediatamente successivi sembra del tutto coerente con quelle stime di minore spesa previdenziale. Sotto questo profilo, “annacquare” l’originale idea di cancellazione con la riproposizione di formule statiche – come la “quota 100” per la somma di anzianità e di età o la sola anzianità di 41 anni e mezzo, senza considerazione per l’età – alleggerisce gli oneri finanziari e rappresenta un tentativo di ritorno al realismo. Il costo di queste “correzioni” (che occorre vedere dei dettagli prima di commentare), stimato in “solo” 5 miliardi, dà la misura, peraltro, del divario tra il molto che è stato promesso e il relativamente poco che ci si propone ora di realizzare e quindi delle esagerazioni – che qualcuno non esiterebbe a chiamare “inganni” - nei confronti dei cittadini per guadagnarne i voti. Mentre ci si vanta della crescente importanza della democrazia diretta, è triste constatare come essa rischi di poggiare, in pratica, sul non dire la verità ai cittadini.

 

Al di là delle aride cifre che definiscono l’aspetto finanziario e che spesso infastidiscono i cittadini per una presunta impropria contrapposizione tra la categoria alta dei “diritti” e quella meschina dei “risparmi” nel bilancio pubblico, vi sono però ben altri significati nel “superamento” della legge Fornero.

 

Il primo è politico. La promessa di abolizione della riforma Fornero, oltre ad attrarre consenso elettorale, ha generato non solo speranze ma anche sentimenti di rivincita. L’abolizione della riforma è così diventata un simbolo, una bandiera da sventolare, in modo quasi del tutto estraneo ai problemi – di breve e di lungo termine – che quella riforma si proponeva di risolvere. Si può anche fingere di dimenticare la concreta prospettiva di grave e imminente crisi finanziaria entro la quale la riforma è stata concepita (una prospettiva ora allontanata ma certo non annullata) ma non si possono trascurare né la dinamica demografica, che porterà nei prossimi 4-5 decenni a più che raddoppiare il tasso italiano di dipendenza degli anziani (dall’attuale 33 circa a oltre il 70 per cento di over 65 sulla popolazione in età lavorativa), né l’abbassamento tendenziale del tasso di crescita dell’economia e le difficoltà occupazionali di molta parte della forza lavoro, giovani e donne, in particolare.

 

Di fronte a questi cambiamenti strutturali, le modifiche introdotte nel 2011 non soltanto hanno reso finanziariamente sostenibile il sistema pensionistico, ma, con l’allungamento della vita lavorativa, ne hanno anche aumentato l’adeguatezza, evitando pensionamenti a età “giovani” (rispetto all’aspettativa di vita), con importi che prima o poi non potranno che rivelarsi inadeguati e richiederanno nuovi interventi pubblici di tipo assistenziale (per esempio, sotto forma di “pensione di cittadinanza”, che oggi può essere oggi opportuna proprio a causa dei pensionamenti in giovane età del passato).

 

Modificare il sistema senza tenere conto di questi cambiamenti strutturali è socialmente iniquo perché equivale a trasferire l’onere che ne deriva sui giovani, ossia sulla parte della popolazione che già più delle altre ha sofferto le conseguenze della crisi finanziaria ed economica. Né si può pensare di accollare il costo alle imprese perché ciò sarebbe in aperta contraddizione con il programma di abbassare le imposte per favorire l’attività economica e l’occupazione.

 

Il costo delle correzioni stimato in “solo” 5 miliardi dà la misura del divario tra il molto promesso e il poco che s’intende realizzare

Non curandosi del medio-lungo termine, la politica torna miope e ripropone le vecchie logiche che sono state alla base del nostro gigantesco debito pubblico. Si guarda all’oggi e all’interesse di chi ha maggiore peso nel determinare gli esiti elettorali e se ne addossano gli oneri a chi conta meno nell’arena politica. E’ difficile ravvisare un cambiamento positivo in questa politica, che sa invece molto di antico, quando le pensioni sembravano dipendere più dalla generosità dei politici che non dal lavoro e dalla creazione di valore aggiunto. E che rischia di “gettare alle ortiche” i sacrifici fatti in questi anni da buona parte della popolazione italiana, quella priva di privilegi da difendere.

 

Vi è un secondo significato di questo ritorno al passato, più profondo e quasi filosofico, che riguarda la portata e il significato delle riforme economiche, le quali vengono introdotte per aiutare l’adeguamento delle istituzioni, e dei cittadini a mutamenti che non si possono evitare e che, senza riforme, implicherebbero costi ben maggiori. Riforme di questo tipo – tra cui rientra la “legge Fornero” – non sono mai a costo zero, ma richiedono sacrifici oggi per stare meglio domani il che, nel caso specifico della riforma previdenziale, si riferisce al minore onere sulle generazioni future. Le riforme comportano, o dovrebbero comportare, anche una riduzione dei privilegi, come il “contributo di solidarietà” imposto nel 2011 alle pensioni più elevate, in considerazione del fatto che in esse vi era racchiuso un “regalo”, quasi sempre finanziato da lavoratori ben più poveri di chi quelle pensioni riceve. E’ difficile però che questi cambiamenti nei comportamenti si realizzino quando chi dovrebbe esserne il propugnatore, li denigra suggerendo l’idea che le riforme siano state decise con scopi oscuri o addirittura a favore di paesi stranieri (come quando si si è suggerito che la riforma rispondeva agli interessi della Germania).

 

Nessuna legge nasce perfetta e certo non una riforma strutturale concepita in venti giorni, sotto il peso dell’emergenza finanziaria. Modificare la legge è possibile e già i precedenti governi si erano mossi per introdurre una maggiore flessibilità nell’età di pensionamento, con l’Ape, nelle due varianti “sociale” e volontaria. Il contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate è opportuno. Questa era la strada da seguire, accompagnandola con sperimentazioni di pensionamento graduale e con interventi di copertura dei contributi nelle fasi della vita nelle quali, per disoccupazione o per attività di cura, non si è in grado di versare personalmente i contributi. Una strada che rafforzerebbe socialmente e finanziariamente la riforma, ma che richiederebbe non solo una coesione maggiore ma anche una coesione diversa. Non con un occhio alle urne ma al futuro di lungo termine della società in cui viviamo.

 

*Già ministro del governo Monti ha recentemente pubblicato “Chi ha paura delle riforme” (243 pp, ed. Egea)