Nel documentario “The Choice” ci sono i colori cupi di un’utopia molto ambiziosa che poggiava su idee poco chiare e sta finendo male (foto Reuters)

Il sistema Casaleggio

Daniele Raineri

Guardate “The Choice”, un documentario che racconta la grande manipolazione della democrazia diretta a Cinque stelle. L’House of Cards che ci meritiamo

Una casa di produzione indipendente di Milano ha preso la storia della piattaforma Rousseau dei Cinque stelle e ne ha fatto un documentario pieno di tensione e lungo poco meno di cinquanta minuti che è appena stato presentato in anteprima a Riccione ai Dig awards, il festival internazionale dei documentari d’inchiesta. La casa di produzione si chiama unozerozerouno, il documentario si chiama “The Choice” e il punto di partenza è noto. Il primo partito politico d’Italia insegue l’utopia di governare il paese con la democrazia diretta e per farlo dispone di un sito che si chiama “piattaforma Rousseau” e che raccoglie tutti i suoi iscritti. Ma c’è un Grande Problema che mina alla base l’utopia dei Cinque stelle, come i giornali di carta provano a raccontare da quasi un anno: il capo di una società privata che si chiama Casaleggio Associati ha il controllo totale della piattaforma usata dai membri del movimento per le consultazioni generali e quindi ha in mano le chiavi di tutta la linea politica.

 

“The Choice” fa parlare davanti alla telecamera un paio di testimoni che lavoravano con Casaleggio al suo progetto di democrazia diretta

“The Choice” fa parlare davanti alla telecamera un paio di testimoni diretti che lavoravano con Gianroberto Casaleggio al progetto di democrazia diretta. Uno è David Puente, che poi ha lasciato la società e si è fatto un nome in proprio come esperto informatico e per l’opera incessante di debunking di bufale su internet. L’altro è Marco Canestrari, che ora vive a Londra e ha visto l’inizio di tutto. L’impressione che si ricava dal suo racconto è quella di un visionario che aveva un progetto e intuizioni teoriche smisurate – “la democrazia a portata di clic” – e che però aveva anche idee molto poco chiare. “Andavo a lavorare nel posto in cui succedevano le cose che contano – ricorda Canestrari con un pizzico d’orgoglio – era un laboratorio d’attivismo che sarebbe diventato il laboratorio della democrazia diretta”. L’idea era fondare “un movimento in cui eletti ed elettori potessero confrontarsi su ogni cosa costantemente attraverso la rete, guidato da una persona colta eccentrica e autorevole come Gianroberto Casaleggio”. Il passaggio successivo fu Rousseau, “un sito a cui tu puoi iscriverti e in questo modo sei anche automaticamente iscritto al movimento politico 5 stelle. Casaleggio voleva che tutte le decisioni democratiche prese dal partito passassero per Rousseau”. Ma la visione diventa sempre più offuscata: “Il problema fin da subito fu che Gianroberto non aveva le idee molto chiare. Ci sarebbe voluto uno studio sullo stato dell’arte della democrazia diretta, ci sarebbero voluti obiettivi chiari ma in realtà non ci fu nulla di tutto questo”.

  

   

La storia dell’hacker buono che ha rivelato i problemi della piattaforma Rousseau ed è stato attaccato dalla propaganda 5S

Canestrari racconta di essersi accorto per la prima volta del problema con Casaleggio nel 2014, quando provò a candidarsi per le selezioni dei Cinque stelle che dovevano correre alle elezioni per il Parlamento europeo e fu escluso d’autorità con un annuncio ufficiale sul sito. “Fra il primo e il secondo turno fummo esclusi io e altri due collaboratori della Casaleggio Associati. Fu una cosa che contraddiceva completamente quello che era successo un anno prima, quando un altro collaboratore della Casaleggio Associati e Alessandro di Battista, che allora era un autore per la casa editrice della Casaleggio Associati, erano stati eletti”. In quel momento, dice Canestrari, ebbi la certezza che il sito usato dai Cinque stelle per le votazioni non si limitava a raccogliere le preferenze, ma seguiva il voto in tempo reale, identificava i votanti singoli e teneva un archivio delle loro decisioni. “Oltre alla differenza di trattamento tra noi e loro, la faccenda dimostrava che all’interno dell’azienda qualcuno poteva vedere come andavano le votazioni a votazioni in corso. C’era qualcuno che aveva accesso ai dati delle votazioni. Questo significa che chi può vedere chi vota che cosa ha evidentemente un enorme potere negoziale nei confronti di chiunque voglia essere eletto o addirittura di chi sia già effettivamente un parlamentare. A oggi Davide Casaleggio può conoscere se un parlamentare ha votato pro o contro alla candidatura di Di Maio a capo politico. Può sapere se ha votato pro o contro un certo provvedimento e confrontarlo poi con le sue dichiarazioni pubbliche”.

 

Sul piano teorico, il semplice fatto che un sito conservi i dati degli utenti e crei un profilo delle scelte politiche per ognuno di loro grazie a ciascuna votazione online – mese dopo mese, anno dopo anno – già manda un segnale d’allarme, perché non si può sapere davvero che fine faranno i dati. Se si allarga lo sguardo a quello che succede altrove, è lo stesso problema che in questi mesi ha messo in guai enormi il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, perché è accusato di avere creato uno strumento di controllo politico formidabile. Una volta che hai raccolto dati all’insaputa dei tuoi utenti è difficile che qualcuno ti chieda di restituirli e potranno essere venduti, scambiati e studiati con lo scopo di ottenere un vantaggio a tutte elezioni.

 

“Oggi Davide Casaleggio può sapere subito se un parlamentare ha votato pro o contro alla candidatura di Di Maio a capo politico”

Sul piano pratico c’è di peggio: è chiaro che grazie al sito Rousseau per la Casaleggio Associati è possibile costruire un registro delle votazioni di ciascun iscritto e di sorvegliare la sua aderenza alla linea politica decisa dai vertici senza che lui lo sappia. Il concetto di segreto dell’urna sparisce. “Puoi sapere chi ha votato cosa e quando”, come spiega Canestrari. Chi non si adegua e vota contro, come hanno fatto lui e altri, può essere tagliato fuori. “Non si può delegare soltanto alla tecnologia il fatto che tutto questo sistema funzioni. E’ veramente un peccato vedere in cosa si è trasformata adesso (l’idea di democrazia diretta vagheggiata da Gianroberto Casaleggio). La democrazia non è diretta perché c’è qualcuno che amministrando la piattaforma, quindi dietro lo schermo dell’autodefinirsi semplicemente un tecnico, può esercitare effettivamente un potere politico”. E tutto questo viene detto nei primi sette minuti.

 


Davide Casaleggio, appoggiato al muro, osserva Luigi Di Maio durante un intervento nella sala consiliare del comune lombardo di Bresso a febbraio (Foto LaPresse)


 

L’idea del documentario, la cui realizzazione è partita a metà gennaio ed è finita a maggio, era già nell’aria ma è partita con il caso dell’hacker buono che è stato triturato dalla propaganda Cinque stelle. Per chi non ricordasse, si tratta della vicenda di uno studente di matematica di Padova di 22 anni, Luigi Gubello, che ha l’abitudine di controllare il livello di sicurezza dei siti che frequenta. E’ un controllo di routine, ma ad agosto grazie a questa abitudine scopre che Rousseau è affetto da vulnerabilità enormi. Dovrebbe essere un sito a prova di intrusione, perché custodisce il meccanismo politico che fa andare avanti il primo partito politico del paese, invece ha falle che gli esperti considerano gravissime e che espongono tutto il sistema agli attacchi di sconosciuti, un fatto che poi è stato confermato anche dal Garante per la privacy. Lo studente, che si protegge dietro il nome del celebre matematico francese Evaristo Galois, segnala in buona fede il problema ai responsabili dei Cinque stelle: lo fa perché è un “white hat”, quindi un hacker che usa le sue capacità per migliorare la sicurezza generale di internet e non per sfruttarne i buchi. Poco dopo la sua denuncia – che aveva il solo scopo di mettere in guardia lo staff di Rousseau sulle imperdonabili debolezze del loro sito – appare un altro hacker che si fa chiamare Rogue0 ed è invece molto meno benevolo. Si infila dentro la piattaforma Cinque stelle, prende dati, dimostra di riuscire a votare con account altrui.

 

Gubello parla nel documentario (se ci fosse stato un casting non sarebbe potuto andare meglio: l’hacker buono si presenta davanti alla telecamera con un papillon multicolore che gli si perdonerebbe qualsiasi eventuale malefatta) e la sua storia è esemplare. Racconta di essere stato ringraziato dai responsabili del sito Cinque stelle, ma di essere stato additato come hacker ostile dalla propaganda dei Cinque stelle, con tutte le conseguenze: la notorietà improvvisa, le minacce di morte e di torture, la denuncia (in questo momento il procedimento è ancora in corso). La dichiarazione di Di Maio quando la polizia postale lo identifica è un capolavoro di ipocrisia e complottismo. “Voglio ringraziare le forze di polizia di questo paese per aver trovato colui che è stato responsabile dell’attacco hacker contro la piattaforma Rousseau quest’estate. Però devo anche dire che un attacco hacker di quella portata richiede delle ingenti risorse economiche e per questa ragione noi vogliamo conoscere i mandanti politici, non ci accontentiamo di questa dichiarazione che abbiamo appena ascoltato in cui si dice ‘Volevo testare l’affidabilità della piattaforma’. Ma chi ci crede?”. E’ la perfezione, il rovesciamento della realtà, la propaganda portata a livelli altissimi e desolanti di efficacia. L’altro hacker, quello che ha fatto i danni, è ancora libero di fare quello che vuole. Il mite Gubello invece viene descritto come un agente di non meglio specificati poteri fortissimi.

 

Siamo abituati a una retorica fatta di pizze e feste paesane. “The Choice” incupisce l’atmosfera a indicare la serietà del pericolo

Il punto è che per ora i rischi della democrazia diretta fatta così sono rimasti molto sullo sfondo. E’ un argomento che non buca più di tanto, non entra nella conversazione nazionale, non occupa il posto che meriterebbe. Si parla molto più di reddito di cittadinanza, di cambiamento generico, di euro, di sanzioni alla Russia, ma senza guardare al sito che ha fatto da porta d’ingresso per tutto il programma. I Cinque stelle sono diventati il primo partito nazionale, hanno creato un governo assieme alla Lega, hanno preso alcuni ministeri e senza dubbio si preparano a condizionare la vita politica del paese per un tempo che oggi è indefinito, ma il loro cardine esistenziale, la partecipazione diretta degli iscritti attraverso un sito gestito da una società privata, resta ancora oggi un meccanismo misterioso, un retropensiero, un argomento per pochi specialisti.

 

Anche per questi motivi ci sono alcune cose che colpiscono a vedere “The Choice”. La prima è i giornali di carta in questi mesi si sono occupati dello stesso tema e hanno dato molti dettagli, ma se si tratta di raccontare la medesima storia con un format più efficace allora il confronto con un video è impari. Uno dei due registi del documentario, Giorgio Viscardini, dice al Foglio che ci sono state molte decisioni tecniche durante la realizzazione per creare la tensione che tiene sul chi vive gli spettatori. Per esempio siamo abituati a una retorica Cinque stelle fatta di pizze e palchetti improvvisati, colori accesi e clima da festa paesana perenne. “Questa se la sogna Oettinger”, dice Luigi Di Maio davanti a una pizza e a un bicchiere di birra in una foto pubblicata via Instagram. Invece il documentario ha colori molto scuri e molto cupi, che rendono un po’ meglio l’idea di un movimento politico dove ogni singolo clic degli utenti / iscritti è registrato e archiviato da una società privata per essere usato in futuro. La festa di piazza è la facciata. La società di consulenza digitale che prende le decisioni finali a Milano è il centro di tutto. Viscardini cita come ispirazione “The Jinx”, una serie prodotta dall’americana HBO, molto noir. “Quando abbiamo inserito nel documentario le dichiarazioni uscite sui media, in televisione e sui social, abbiamo usato un effetto cabina di regia, lo schermo si divide in molti schermi più piccoli e tutti ripetono la stessa dichiarazione con le stesse parole, perché volevamo dare il senso di quello che succede con questo tipo di comunicazione politica, ti arriva addosso una massa di dichiarazioni da tutte le parti e tutta assieme, è un impasto, c’è un effetto sciame. Invece per gli esperti che abbiamo intervistato durante la realizzazione della storia abbiamo scelto un fondo nero, in modo che fosse tutto il più neutro possibile, senza distrazioni, senza altro, volevamo che contassero soltanto i concetti che esprimono, che fossero quasi soltanto voci che escono da uno spazio buio”.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)