Di Maio è ostaggio dei guru social del M5s

Valerio Valentini

Se un like vale più di Palazzo Chigi. Così Casalino e Dettori hanno spinto Di Maio a invocare un impeachment senza senso

Roma. In fondo si dirà che era fatale, che a consegnare la guida effettiva del Movimento a un ex concorrente del “Grande Fratello” reinventatosi opinionista da salotto (sia detto senza scorno di Mentana) e di un social media manager specializzatosi come ghostwriter di Beppe sul Sacro Blog, alla lunga si sarebbe finiti col confondere ciò che è mediaticamente efficace con ciò che è, o dovrebbe essere, politicamente opportuno. Ma il problema – in quest’epoca di postideologie in cui tutto è comunicazione, oppure non è – non sta neppure nell’onnipresenza di Rocco Casalino e Pietro Dettori, nel loro perenne attorniare il giovane leader grillino: perché anche Matteo Salvini ha il suo Luca Morisi e la sua Iva Garibaldi, ma sa muoversi in piena autonomia, con scriteriata e lucidissima abilità, dopo anni di gavetta cominciati in Consiglio comunale – anno di grazia 1993, quando il suo attuale potenziale alleato era in seconda elementare – e sudati poi, a uno a uno, a scalare il suo partito sfidando gente come Umberto Bossi e Roberto Maroni.

 

 

  

Il problema, semmai, è proprio l’inconsistenza politica di Luigi Di Maio, il suo stralunato brancolare tra i palazzi del potere sempre lasciandosi guidare da consiglieri vari, restando in definitiva succube dei suoi strateghi della comunicazione. E la scena che tra loro si raccontano, i parlamentari grillini più insofferenti allo spadroneggiare di questo circolo ristretto di Richelieu per caso, è di quelle emblematiche, nella sua icastica essenzialità. E’ domenica sera: tutto va precipitando, e Di Maio resta interdetto, tanto adirato quanto indeciso sul da farsi. Giuseppe Conte ha appena ufficializzato la remissione del suo incarico. Salvini ha già parlato, da Terni – mentre il premier in pectore era ancora a colloquio con Sergio Mattarella – sancendo di fatto il fallimento del governo mai nato.

  

“Dobbiamo farci sentire, siamo assenti”, sbraitano i due capi della comunicazione a cinque stelle. Ma per dire cosa? “Non importa, dobbiamo rientrare nel dibattito”. Ed è così che a Dettori viene l’idea: intanto, leggiamo in diretta la lista coi ministri. Di Maio tentenna. Dettori, l’uomo di massima fiducia di Davide Casaleggio non a caso trasferito da via Morone a Montecitorio per sovrintendere alla nascita della Terza Repubblica (oltreché per organizzare, nella sua casa dalle parti di Castel Sant’Angelo le riunioni per preparare Conte agli incontri al Quirinale), prende l’iniziativa: sospinge il capo politico del M5s in una stanza del palazzo dei gruppi, lascia entrare giusto un paio di collaboratori, e in un paio di minuti dà avvio alla diretta Facebook. Non si cura delle norme estetiche canoniche: non c’è testo scritto, parole evidenziate, non c’è alcuna bandiera italiana o dipinto d’ordinanza alle spalle di Di Maio.

   

Tutto è nudo, essenziale, necessariamente improvvisato: per il montaggio non c’è tempo, si va tutto d’un fiato. Bisogna fare in fretta. Il giovane leader parla davanti a un muro grigio, ostenta un livore che copre l’incertezza. A metà del suo discorso comincerà a parlare il presidente della Repubblica: le parole di Mattarella dallo studio alla vetrata oscurano il monologo del leader grillino. Bisogna rilanciare, bisogna bucare. E il suggerimento arriva dall’esterno: la prima a parlare di impeachment è Giorgia Meloni. E subito, nelle chat dei parlamentari a cinque stelle, quella tentazione rimbalza: Carlo Sibilia è il più determinato. Ma a intestarsela non può essere certo il deputato avellinese, peraltro tra i più invisi ai vertici pentastellati. I quali, in forma anonima, fanno subito sapere alle agenzie che “stanno riflettendo” sulla messa in stato d’accusa del capo dello stato. La notizia appare immediatamente clamorosa: “Buca!”.

 

E allora ecco che, abituati a misurare l’efficacia delle proprie pensate sul metro della viralità con cui si diffondono sulla rete, Dettori e Casalino la promuovono all’istante come geniale, l’idea di accusare di attentato alla Costituzione quello stesso presidente della Repubblica mille volte lodato e riverito nei mesi passati. E poco importa che siano in tanti, e neppure di poco peso, i parlamentari contrari a questa follia. “E’ una reazione d’istinto, non ha senso”, provano a intromettersi. Serve a poco: passa un’oretta, e dal palco di Fiumicino Di Maio, insieme al barricadero Alessandro Di Battista, conferma la volontà di chiedere l’impeachment. E’ un buon modo, pensano i capi della comunicazione, anche per stanare Salvini. Il quale, in verità, si mostra subito più accorto, freddo nella sua esibita esagitazione per le strade di Terni. “Nessuna guerra tra me e il Quirinale”, dice, lasciando a Di Maio il cerino in mano. Mossa saggia, di chi vede già oltre la rabbia di una sera.

 

E non a caso al leader grillino toccherà fare di tutto, senza riuscirci fino in fondo, per non apparire ridicolo nel ritornare sui suoi passi. La palinodia, assai scomposta pure quella, arriva dal palco di Napoli, due giorni dopo. Della messa in stato d’accusa non se ne fa più nulla, abbiamo scherzato. “Ma solo perché Salvini non ci appoggia”, balbetta Di Maio. E’ di fatto la contraddizione definitiva: quella che sancisce, in sostanza, il capovolgimento dei rapporti di forza tra il leader grillino e il segretario del Carroccio. “Se ti circondi di adulatori, se ti confidi con chi ti dice che hai sempre ragione, non vai lontano”, dicono ora i deputati del M5s che denunciano la crescente autoreferenzialità di quella “combriccola sempre più ermetica” che “tiene in ostaggio Luigi”. Ma per i processi è ancora presto, o forse già troppo tardi.