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Trasformisti addio

Giuseppe De Filippi

Perché si è inceppato il motore della politica italiana. Che ha i suoi pregi e una lunga storia, ma fatica quando gli estremi sono maggioranza

Aiuto, mi si è rotto il trasformismo. Il motore della politica italiana (e di gran parte della politica dei paesi democratici) si è inceppato nell’ibrido della non-Terza Repubblica. Cioè nella condizione politica e istituzionale che si viene a determinare a partire dalle dimissioni con resa dell’ultimo governo guidato da Silvio Berlusconi, delle quali non è mai stata data una spiegazione politica fondata, plausibile, sensata, lasciando un trauma non risolto, cosa di per sé molto pericolosa per una comunità nazionale. E subito dopo determinata dalla sospensione delle ostilità, come in una tregua olimpica, che fa vivere per qualche mese il governo Monti. E poi dalla non-vittoria di Bersani, fantastico passaggio fondativo della non-Terza Repubblica (con tutta l’ironia della fondazione di qualcosa che non è). Anche i tre governi Pd, seguiti alla non-vittoria, sono governi di limbo, e, azzardiamo, proprio questa condizione di quasi sospensione dalla realtà ha consentito a Matteo Renzi e a Paolo Gentiloni e ai loro baldi ministri di portare a compimento riforme mai riuscite prima, fino all’iperbole del tentativo di rifondazione costituzionale e istituzionale, e li ha però poi posti di fronte a un giudizio che ha rotto l’incantesimo del governo sospeso (tra l’altro tornando, per interposta rottura del patto del Nazareno, al trauma irrisolto del Berlusconi dimissionario seppure dotato di solidissima maggioranza). E ancora il 4 marzo, il meraviglioso voto in cui tutti non-vincono e molti rivendicano un simulacro di governo, e nessuno ha uno straccio di idea per realizzarlo, mentre si propongono come levatrici della Repubblica che chiamano terza, scordandosi, o non accorgendosene, che davanti alla definizione dovrebbero metterci un “non”.

 

Un limbo che comincia con le dimissioni dell’ultimo governo guidato da Berlusconi. Il 4 marzo il voto del tutti non-vincitori

Una tutela contro l’estremismo. L’operazione portava a convergere verso il centro, sia con Depretis, sia con i democristiani

E’ la potenza creatrice del trasformismo che è venuta a mancare e loro non possono farci niente. Ogni volta che si verifica questa mancanza nella storia politica italiana sono guai. Il primo trasformismo, correttamente e intelligentemente, venne visto come fenomeno positivo. Si percepiva la forza dell’ibridazione politica. Era l’epoca della chimica come scienza trainante: le trasformazioni erano processi di miglioramento o comunque di ricerca del nuovo e, sempre orecchiando un po’ di chimica, con le trasformazioni si poteva arrivare a condizioni stabili e quindi utili. Agostino Depretis, il titolare del brand, aveva attraversato varie forme di intesa, collaborazione, convergenza, tra forze politiche già negli anni preunitari. Aveva visto operare il connubio cavouriano, aveva saputo promuovere una sinistra liberale (oggi si direbbe liberale e pure un bel po’ liberista, senza sinistra) in grado di dialogare sia con Camillo Cavour, sempre un po’ sospettoso verso di lui per qualche suo trascorso mazziniano, sia con Urbano Rattazzi. Insomma, sapeva perfettamente come funzionano il processo politico e la gestione del potere quando non sono vacui proclami, fuori dalle posizioni di principio e dai programmi da portare al notaio con annesse penali per chi dirazza. E sapeva anche usare le parole. Niente alleanza, niente accordo, e per enorme fortuna degli uomini dell’Ottocento nessuno aveva diffuso l’orrendo “inciucio” (accontentandosi del già citato “connubio”) ma nel suo famoso discorso con cui avviò il dialogo tra la sua sinistra-centro e la destra di Marco Minghetti gli si rivolse chiedendogli di “trasformarsi”. Così, dichiaratamente, un’inedita proposta maieutica, lo spiattellamento di un processo evolutivo della politica da svolgere alla luce del sole, programmaticamente. E da lì l’invenzione, politica e giornalistica, di una parola, di un “ismo” tra i tanti che ci avrebbero caratterizzato, ma che ha saputo resistere, cambiando nome (insomma, giocando in casa...), a tutti gli stravolgimenti istituzionali.

 

Tornando al discorso di Depretis, che quando doveva qualcosa di importante lo andava a dire a Stradella – certo, la sua città, ma non proprio il centro del mondo (e qui gli storici devono interrogarsi sulle modalità di comunicazione politica ottocentesche) – succede che i trasformandi, cioè Minghetti e i suoi, accettano, si trasformano e trasformano gli alleati a loro volta. Riescono così a creare un blocco anche elettorale che rappresentava la borghesia, la nuova anima del Regno, ma con la capacità di assecondare lo sviluppo sociale (Depretis e il ministro Michele Coppino sono tra l’altro i padri della scuola laica, pubblica, gratuita, per tutti). Passa qualche anno prima che il trasformismo cominci ad avere un’accezione negativa. E, verrebbe da dire, non per demeriti suoi, ma per il normale logoramento di un assetto stabilizzato. E così, tra gli attacchi alla politica di Depretis, che come tutti i prodotti di campagne propagandistiche sono sempre imprecisi, sempre nel mucchio, venne a essere colpito anche il concetto di trasformismo. Secondo Giovanni Sabbatucci, nostra guida nell’affrontare questo fenomeno storico, è suo il saggio sul “trasformismo come sistema” (Laterza 2003), c’entrò pure un po’ Fregoli nel gioco denigratorio: il trasformista per eccellenza, per il grande pubblico, era diventato lui, e accostare i suoi cambi di casacca in scena, rapidissimi e stupefacenti, alle prese di posizione repentine delle forze politiche e dei singoli parlamentari, non poteva che comportarne l’irrisione. Insomma dal campo della chimica si passa a quello dello spettacolo sì geniale ma anche un po’ triviale. Ma è un momento, l’attacco colpisce il bersaglio immediato, ma la fiaccola dell’intelligenza politica non si spegne. E non si fa sfuggire l’occasione, anni dopo, Benedetto Croce, con lo stesso gusto per la provocazione del senso comune sperimentato nello smontare la presunta categoria politica dell’onestà, per infilzare i critici del trasformismo. Sulla Critica, nel 1908, scrive che è “meglio, in politica, avere rappresentato venti bandiere che nessuna: parecchi grandi uomini son passati da una ad altra bandiera, e il mondo non si è trovato di ciò troppo male”. E Croce non solo ci diverte ma ci aiuta anche a capire che a mettere nei guai il sistema basato sul trasformismo e, si potrebbe dire, da esso storicamente creato, non furono certamente le invettive moraleggianti e gli appelli contro i cambi di casacca, ma fu, come dice Sabbatucci, “il sistema stesso che, vittima del suo successo, si era irrigidito, procedeva resistendo nel suo nucleo storico e adattandosi alle mutevoli condizioni e aveva perso quella spinta iniziale per la quale fu visto come una tutela contro l’estremismo. Si accresceva per cooptazione non certo per competizione, un sistema chiuso che quando entrò in crisi diventò bersaglio nella sua interezza, secondo un copione visto anche nella nostra cosiddetta Prima Repubblica, anch’essa basata proficuamente sul motore trasformistico, e poi però travolta da una condizione di irrigidimento e chiusura simile a quella sperimentata dallo stato liberale”.

 

La lunga stagione dei governi centrati sulla Democrazia cristiana fu, come si diceva, molto proficuamente abitata dal trasformismo. Il primo centrosinistra ne aveva tutte le caratteristiche positive, andando a sovrapporsi in modo quasi perfetto alla lettura ottocentesca della strategia trasformista come contrasto agli estremismi. E un’operazione trasformistica condotta con un po’ di impegno, e con linearità e discussione pubblica (quella certo non mancò per il primo centrosinistra), lascia comunque dei frutti politici, tanto da fare leggere anche la stagione del pentapartito come un portato di quei primi tentativi (esattamente con lo schema delle trasformazioni chimico-politiche). Culture politiche diverse e diverse rappresentanze di interessi di incontrano, si legittimano, si trasformano (come nel lessico quasi ingenuo di Depretis), producono blocchi sociali. Meno canonico fu il caso della solidarietà nazionale. Non era, come il centrosinistra, un’applicazione piena del “metodo Depretis”, anzi, ne era molto lontana, e soprattutto si reggeva su singole personalità politiche di grande carisma e non su un progetto con qualche possibilità di durata. E proprio lo sfociare del successivo fallimento nell’arrocco della questione morale mostra come, invece, la vera strategia trasformista sia ben più feconda delle rivendicazioni identitarie.

 

Depretis, niente alleanza, niente accordo: nel discorso con cui avviò il dialogo, si rivolse a Minghetti chiedendogli di “trasformarsi”

“Parecchi grandi uomini son passati da una ad altra bandiera, e il mondo non si è trovato di ciò troppo male” (Benedetto Croce)

E ora si prova a riaccendere il motore ma non sappiamo più come fare. “C’è un tentativo malinconico della minoranza del Partito democratico – ci dice Sabbatucci – una specie di rovesciamento delle parti, in cui a proporre l’operazione trasformistica è un gruppo minoritario di un partito minoritario e si rivolge a uno schieramento invece molto più pesante numericamente. Il tentativo nell’Italia di questi giorni è avviato non da chi deve accogliere ma da chi deve entrare, ma così si inverte la normale prassi e ci si condanna al fallimento”. A dare, però, un’impressione maggioritaria all’operazione di goffo trasformismo tentata in questi giorni in Italia è stato il sostegno, quello sì massiccio, di un nutrito fronte giornalistico e intellettuale all’operazione. Passando dai toni suadenti o garruli, di chi un po’ recita non sapendo neanche bene perché sta promuovendo un’alleanza politica con tanta energia, ai toni minacciosi, accusatori, di chi sta lì sullo schermo o sui giornali ad additare eversori, oppure, in modo involontariamente comico, sta lì a proporre a questi efferati eversori una facilissima via d’uscita: un salto in maggioranza e l’eversione va via, come fosse niente. Sullo sfondo c’è un tentativo di razionalizzazione, per trovare una risposta alla chiara, ben definita, obiezione di Sabbatucci. Il trasformismo funziona benissimo ed è addirittura necessario, si diceva, ma ha le sue regole, tra cui quella che prevede che la prima mossa, l’appello iniziale al rassemblement venga dalla forza maggioritaria, e non solo, si direbbe, con un fischio, ma con un riconoscimento politico, con la constatazione, pubblica e aperta, dell’importanza del contributo della forza minoritaria. Insomma, facendo politica e non negandola. Allora, tolti i garruli e le garrule da talk-show, almeno gli intellettuali a capo del movimento per la confluenza del Pd nei Cinque stelle hanno costruito questo loro schema politico su una premessa, che serve a risolvere il problema appena visto, garantendo sulla certezza della colonizzazione culturale e politica dei Cinque stelle da parte loro. Come potrebbe resistere quell’armata, sia pure numericamente fortissima ma culturalmente povera, tabula rasa, sbandata, al fascino, alla potenza di convincimento degli argomenti giusti per definizione, cioè quelli custoditi dalla sinistra? Forti di questa sicurezza si mostrano dolcemente sorridenti, inclusivi, meravigliosamente comprensivi per qualche erroruccio non di grammatica e basta, e vabbè, ma di grammatica democratica e costituzionale. E che sarà mai se un po’ di articoli della Costituzione, e guarda un po’ proprio quelli che connotano il nostro stato e la nostra democrazia come liberali, vengono negati dai programmi a Cinque stelle e molto altro viene travolto dai deliri del garante Beppe Grillo e dal controllo della Srl casaleggiana. Sono cose che si aggiustano, con un po’ di corsi di aggiornamento, un po’ di buone letture e di buone frequentazioni. E’ una specie di trasformismo con proprietà transitiva quello che viene proposto: noi trasformiamo voi e in cambio ci becchiamo i voti. Roba pericolosamente velleitaria, che sa di avventurismo, se proprio vogliamo pescare tra gli “ismi”.

 

Ma il nostro punto è come riuscire a rimettere in moto la meravigliosa macchina del trasformismo. Quello tendenza Depretis che comunque costrinse una qualche forma di classe dirigente a venire democraticamente allo scoperto, a farsi individuare e a prendere la guida politica del Paese, è ancora proponibile? Lo sarebbe avendo a disposizione quelli che prima abbiamo chiamato i trasformandi, i due schieramenti che sono in grado di entrare nella contaminazione. Il gioco ha funzionato quando l’operazione trasformistica portava a convergere verso il centro, sia con Depretis (anche se ai suoi tempi la categoria di centro non era molto considerata) sia con i democristiani. Diventa tutto più difficile quando gli estremi, anche quelli di nuovo conio, sovranisti e populisti, prosperano e sommati sono largamente maggioritari. Il patto del Nazareno è stato forse l’ultimo tentativo di riportare in vita quel modello di alleanza politica, ma certo mancava della solennità di una proposta e di una strategia fatte per trasformarsi reciprocamente. E mancava del respiro di un approccio pubblico, riconosciuto, politicamente rilevante. Mancava perfino della solennità di un discorso pronunciato a Stradella. E forse basterebbe ripartire da un discorso da pronunciare nella Stradella di oggi.

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