Matteo Salvini e Giovanni Toti (foto LaPresse)

Il tappo è solo Di Maio, dice Toti

Salvatore Merlo

“Salvini incarna il programma. E non manderà tutto a ramengo per fare il capo del governo”

Roma. “Matteo Salvini non è Luigi Di Maio. Il problema di Salvini, a differenza di Di Maio, non è quello di diventare presidente del Consiglio. Ma di rispettare il programma elettorale”, dice Giovanni Toti. Che aggiunge: “Tuttavia non si può chiedere a Salvini di fare un passo indietro, se questo passo indietro non serve a niente”. Per essere ancora più chiari: “Non siamo disponibili a sacrificare nessuno dei nostri leader a fronte di nessun vantaggio per il popolo di centrodestra”.

 

Al termine della tribolata direzione nazionale del Pd, e alla vigilia di un nuovo giro di consultazioni al Quirinale, il presidente della regione Liguria, l’esponente di Forza Italia probabilmente più vicino alla Lega, Giovanni Toti, disegna nell’aria il perimetro delle ipotesi all’interno del quale si muove il centrodestra. “Esistono solo due opzioni possibili”, dice. “La prima è quella di costruire un governo che possa ambire a durare l’intera legislatura. Un governo che coinvolga tutte le forza di centrodestra e che abbia come ossatura il programma elettorale del centrodestra, con la disponibilità a collaborare del M5s. La seconda ipotesi, forse adesso più probabile, è quella di un governo istituzionale di breve durata che abbia come programma politico le emergenze reali del paese: Alitalia, Ilva, sterilizzazione delle clausole di salvaguardia per impedire l’aumento dell’Iva, bilancio europeo con i tagli previsti dalla Brexit, revisione dei trattati sulle banche e l’elaborazione di una legge elettorale maggioritaria”. 

 

E insomma Giovanni Toti, che di Salvini è più che amico, quasi spiega di non aver bisogno di dare al segretario della Lega alcun consiglio perché l’effetto “tappo”, “l’effetto Di Maio”, quella sindrome da granello di sabbia negli ingranaggi, Salvini non lo rischia. Non vuole fare il presidente del Consiglio a tutti i costi. “Ma al contrario ha dato prova di grande responsabilità: ha subito detto di essere pronto a un passo indietro se questo fosse servito a chiudere un accordo con il Movimento cinque stelle. E ha anche detto con fermezza che non avrebbe in alcun modo disatteso la volontà degli elettori che ci hanno votati insieme, che hanno votato lui, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, uniti”.

 

Il centrodestra, con il 37 per cento, si trova in una situazione persino più complicata di quella in cui si trovava Bersani nel 2013. L’allora segretario del Pd, che un po’ come Di Maio cercava maggioranze di qua e di là, aveva con il suo solo partito il controllo della Camera. Ma non aveva il Senato. Oggi il centrodestra, che è pure la coalizione che ha preso più voti alle elezioni, non è invece maggioranza in nessuno dei due rami del Parlamento. “Siamo evidentemente in una situazione più difficile di quella nella quale si trovava Bersani”, risponde Toti. “Credo che il presidente della Repubblica nelle prossime ore cercherà di capire se esiste la possibilità di un governo politico, che non potrà che avere come baricentro la coalizione vincitrice delle elezioni, cioè noi. L’alternativa è quella che il presidente Mattarella si addentri nei meandri della prassi: governi di scopo, di salute pubblica… La prima strada porta a Palazzo Chigi un esponente del centrodestra, auspicabilmente Matteo Salvini o comunque a una personalità espressione della Lega. La seconda porta a una scelta più complicata”.

 

“Auspicabilmente Salvini”. Dunque anche qualcun altro, ma sempre della Lega. “Io non credo che il leader del centrodestra avrebbe timori a fare un passo di lato se questo potesse aiutare la nascita di un governo solidamente agganciato al programma promesso agli elettori. Ma non si può trasmettere l’idea che le scelte del corpo elettorale siano irrilevanti. Salvini ha il dovere di mettersi al centro. E noi abbiamo il dovere di chiedergli di stare al centro delle cose, e di proporsi lui. Salvini è stato eletto dal 37 per cento degli italiani, rappresenta il partito di maggioranza relativa di quel 37 per cento. Incarna, il programma politico. Il candidato è lui. Auspicabilmente. O comunque, come dicevo, una personalità della Lega”.

 

E perché non di Forza Italia? “Perché se c’è la possibilità di un governo che faccia almeno in parte quello che è stato promesso agli elettori, il volto dev’essere del centrodestra e in particolare del partito che ha preso più voti e che guida la coalizione. Non si può fare? Non ci sono i numeri? Il M5s non ci sta? Allora siamo totalmente fuori da questo campo e serve un governo di tregua, di traghettamento, un esecutivo che sia solo una parentesi prima delle elezioni. Tutta un’altra vicenda”.

 

Nel primo caso, quello di un governo che abbia come cardine il centrodestra, sono in tanti a parlare di Giancarlo Giorgetti a Palazzo Chigi. Il gran consigliere di Salvini. Al posto di Salvini. “Questo spetta alla Lega dirlo. E comunque il toto-nomi sta nell’area semantica delle figurine Panini, non della politica. Decida il presidente della Repubblica quale dei due sentieri va percorso. Lo ripeto: un sentiero richiede una responsabilità molto importante per il centrodestra, e porta a Palazzo Chigi Matteo Salvini o un altro nome della Lega. Il secondo sentiero prevede invece una responsabilità istituzionale ampia delle forze politiche rappresentate in Parlamento, ma limitata nel tempo e con obiettivo le elezioni”.

 

Primo punto dell’agenda di un governo di questo tipo sarebbe la riforma elettorale? “Sì. E in senso maggioritario. Un sistema che cancelli dall’orizzonte l’incubo di una seconda tornata di elezioni che finiscono nel nulla. La legge elettorale sarebbe il cronometro della legislatura. La si approva, e si va a votare subito”.

 

Ma con i Cinque stelle è davvero finita? “Io se fossi il M5s, dopo aver danzato per forni, panetterie, rosticcerie, alla ricerca della pietanza più gustosa, cercherei quantomeno di nutrirmi. Tolta di mezzo l’ambizione di mangiare esattamente quello che volevano, forse i Cinque stelle possono dare una prova di maturità”. Dunque no, non è finita.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.