Il sommergibile di de Magistris e le armi insidiose del populismo

Paolo Macry*

La boutade del sottomarino di Trump utilizzata per distrarre l’attenzione dai guai grossi in cui si dibatte la sua giunta. Se il gioco napoletano dell’irrealtà diventasse il gioco del governo del paese sarebbero guai per tutti

E’ stato un fuoco di paglia. Il giallo del sommergibile di Luigi de Magistris è scomparso rapidamente dai titoli dei media. Affondato da ben altre guerre e guerriglie, quelle che si combattono con sorprendente flemma tra i vincitori del 4 marzo. Ma attenzione a sottovalutare quella boutade del sindaco di Napoli, che in grazia di una delibera municipale del 2015 pretendeva di indicare la rotta al mostro marino di Trump. Perché invece è l’ennesima conferma delle armi insidiose, forse nucleari, che il populismo sa mettere in campo nella battaglia politica. Il ruggito di de Magistris avrà pure attizzato le ironie dei commentatori, i lazzi della rete, le vignette alla Osho. Ma intanto, per qualche giorno, ha distratto l’attenzione dai guai grossi in cui si dibatte la sua giunta. Forse sono stati i media a cadere nella trappola del sindaco e non viceversa. Il fatto è che de Magistris sembra essere il paradigma di un modello populistico che sta rompendo la logica e la stessa morale della democrazia rappresentativa. E il sospetto, inutile nasconderselo, è che quel paradigma sia la sfera di cristallo dove leggere ciò che potrebbe accadere al paese intero nel prossimo futuro. Basta mettere al posto di de Magistris i leader pentastellati e leghisti e lasciare briglia sciolta alla fantasia. Il quadro che se ne ricava non è rassicurante.

 

Il modello arancione appare sconcertante per una prima ragione. Non ha uno zoccolo duro. Non ha referenti sociologici e culturali omogenei. Pesca consensi dappertutto. Giunto alla carica senza un significativo pedigree politico e dopo aver fatto sfracelli in magistratura, de Magistris riesce a mettere assieme un’area di opinione straordinariamente variegata, che lo eleggerà per ben due volte, sebbene non abbia grandi partiti alle spalle. Il suo popolo sono gli studenti, gli antagonisti, i centri sociali, lo sciame accortamente gestito dei social network. Sono i ceti medi cosiddetti riflessivi del vecchio antiberlusconismo, i frequentatori del marottiano Istituto Italiano di Studi Filosofici, gli eredi del Novantanove, gli anziani che affollano i dibattiti alla Feltrinelli, i filoborbonici che recriminano sempre. Sono i frammenti vivi e vegeti del terzomondismo, gli ammiratori di Chaves e Maduro, di Ochalan e Varoufakis, i palestinesi, i catalani. Sono i comunitaristi, i regressisti alla Latouche, i teorici della democrazia diretta, i sindacalisti autonomi, i rudi movimenti per il lavoro, i partigiani dell’art. 18. Sono naturalmente le schiere giustizialiste, i professionisti dell’onestà, gli amanti della Costituzione più bella, gli antirenziani compulsivi. Ma sono anche (sorpresa!) coloro che lottano per i diritti della persona, le unioni gay, il testamento biologico. Una maionese impazzita? Sarà pure, ma la maionese impazzita permette di utilizzare ideologie assai lontane tra loro, di sfuggire a ogni obbligo di coerenza, di promettere a ciascuno il suo spicchio di futuro.

 

Il secondo pilastro, strettamente legato al primo, è la programmatica ignoranza del principio di realtà. La realtà, a dire il vero, è sotto gli occhi di tutti. L’esperienza amministrativa di de Magistris appare ormai fallimentare. Non soltanto nelle politiche di maggior peso, conti municipali sull’orlo del crack, sovrattasse ai massimi, trasporti in coma, zero manutenzione. È la stessa legalità che sembra al tracollo. Nella Napoli dell’ex pm trionfa l’abusivismo di un terziario straccione, l’occupazione selvaggia di ogni spazio pubblico, la militarizzazione di qualsivoglia piazza e strada da parte di un esercito di minacciosi parcheggiatori. La città diventa un territorio franco dove spadroneggiano i comportamenti aggressivi, le risse al coltello, le sparatorie delle babygang. E allora? Allora non succede nulla. Perchè, paradossalmente, al suo popolo variegato de Magistris non deve rendere conto. Perchè il populismo non viene mai giudicato dai programmi, come dimostra lo sbianchettamento furtivo delle promesse pentastellate, ma non viene mai giudicato neppure a posteriori. Neppure sulla base dei risultati. Non esiste verifica empirica che possa inchiodarlo alle proprie defaillance. Inefficienze e fallimenti non hanno responsabili o, meglio, vengono addebitati ai nemici del popolo. A Napoli, la demagogia localistica, la difesa enfatica della città, la denuncia dei presunti torti che avrebbe subìto, permette di scaricare sempre su qualcun altro la colpa degli insuccessi. In spregio a ogni ragionevole realismo. Le buche? Il disordine? Le imposte? La colpa è di Renzi, di Gentiloni, dell’Europa, dei banchieri, del Nord leghista, dei corrotti, delle mafie. Il che produce un’utile mobilitazione di stampo vittimistico.

 

E alla fine il sistema tiene. E’ un efficiente (questo sì) circuito chiuso di consenso ideologico, rivendicazionismo comunitario, invenzione del nemico, deresponsabilizzazione. Un circuito, si noti, che rappresenta quote decisamente minoritarie della popolazione, perché il grosso dei napoletani non è andata a votare o non ha votato de Magistris. Al populismo, però, basta quel 30-40 per cento dei consensi espressi per seppellire i fatti sotto le fake news. I fatti, magari, diventano le elemosine che governi deboli finiscono per concedere al petulante Masaniello. E dopotutto, di questi tempi, cosa chiedere di più a un sindaco? Ma intanto quel populismo assomiglia molto ai linguaggi stentorei, ai programmi scritti sulla sabbia, alle fantasiose seduzioni dei Cinque Stelle e dei leghisti. E ci vuole poco a capire che, se il gioco napoletano dell’irrealtà diventasse il gioco del governo del paese, se finisse per riguardare le pensioni o il salario garantito o l’Europa o Putin, sarebbero guai per tutti.

 

*professore di Storia Contemporanea presso l'università Federico II di Napoli 

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