Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Maurizio Martina (fotomontaggio di Enrico Cicchetti)

“No tu no”. I veti incrociati di Pd, Forza Italia e Lega (e l'ottimismo di Mattarella)

Paolo Emilio Russo

Seconda giornata di consultazioni. Al Quirinale le delegazioni guidate da Maurizio Martina, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Nessuno sembra disponibile a cambiare posizione. Ma il presidente della Repubblica è fiducioso: a breve ci sarà un governo

Prima il Pd, poi Forza Italia, infine la Lega. È una ragnatela di veti e controveti quella lasciata sul campo dalla prima mattina - seria - di consultazioni al Quirinale. Sono così tanti e scientificamente incrociati da infondere ottimismo sul fatto che, prima ancora dei due mesi stimati, potrebbe nascere un governo con una maggioranza larga e solidissima. Via un veto, cadono tutti e potrebbe spuntare già al prossimo giro di colloqui un governo tra centrodestra, Cinquestelle col sostegno esterno (e tematico) del Pd.

 

Al Quirinale tira una buona aria ed hanno apprezzato i toni di Matteo Salvini, specie nei due passaggi del suo breve discorso all’uscita nei quali faceva riferimento ad un governo “che duri per una legislatura” ed apriva alla possibilità che a Palazzo Chigi possa andare un altro esponente del centrodestra, diverso da lui. Chi l’avrebbe mai detto, ma è il segretario della Lega che sta dando le carte di questo primo giro di colloqui.

 

Non ci sono sorprese sul fatto che la direttrice che ha in mente è quella di un “accordo tra il centrodestra e il Movimento 5 stelle” che consenta di creare “non governi a tempo o improvvisati”, ma un esecutivo “che duri almeno 5 anni e che abbia l’interesse nazionale italiano come priorità”. Il leader del fu Carroccio, accompagnato da Gian Marco Centinaio e dal suo Gianni Letta, cioè Giancarlo Giorgetti, non è cascato nel tranello dei Cinquestelle che avevano provato a dividere la sua coalizione aumentando la pressione su Silvio Berlusconi, provocandolo con proposte del tipo “serve una legge sul conflitto di interessi”. “Partiamo dalla coalizione di centrodestra che oggi abbiamo ribadito essere unitaria. Dal centrodestra si parte, ma noi andiamo in Parlamento se ci sono dei numeri certi. Io continuerò a incontrare tutti e ascoltare tutti”, ha aggiunto il neo senatore. Non farà un tentativo alla cieca e, così facendo, condanna Luigi Di Maio a fare lo stesso. Pure Salvini ha dovuto mettere agli atti un suo veto: “La Lega dice no ad un governo con il Pd perché ha perso le elezioni”.

 

Mezz’ora prima, arrivando in auto e non a piedi, era entrato nello studio di Sergio Mattarella anche Silvio Berlusconi. Per il presidente di Forza Italia è stato un grande ritorno e per sancirlo il Cavaliere ha ripetuto davanti alle telecamere quello che aveva già detto dentro. Accompagnato dalle due nuove capogruppo, Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini, l’ex premier ha sostenuto che “questo nuovo governo, che serve e dovrà affrontare i problemi del Paese, non potrà non partire dalla coalizione che ha vinto le elezioni, il centrodestra, e dal leader della forza politica più votata nella coalizione e cioè la Lega”. Responsabile per eccellenza, pronto a discutere di tutto a condizione di avere “una presenza di alto profilo a soluzioni serie basate su accordi chiari e su cose concrete, fattibili e credibili, in sede europea”, pure lui ha dovuto mettere un paletto. “Un governo per le urgenze ha bisogno dei numeri parlamentari che il centrodestra da solo non è in grado di assicurare. Quindi, dovrà fondarsi su accordi chiari con altri soggetti politici. Ma non siamo disponibili a soluzioni di governo dove prevalgano l’invidia, l’odio sociale, il pauperismo, il giustizialismo”. Questi ultimi, a suo dire, sarebbero i principi che ispirano la proposta politica dei Cinquestelle.

 

Berlusconi si presenta come “stabilizzatore” e cita ripetutamente l’Europa, dove, con un governo degli altri, “il nostro Paese si metterebbe in grave difficoltà”. Quello del Pd, salito al Colle con Maurizio Martina, Andrea Marcucci, Graziano Delrio e Matteo Orfini è stato più un “auto-veto” che un veto vero e proprio. “L’esito elettorale per noi negativo non ci consente di formulare ipotesi di governo che ci riguardino in coerenza con il programma che abbiamo presentato agli elettori”, ha spiegato il segretario reggente. Non ci sono discostamenti dalla linea di Matteo Renzi e dei fedelissimi, ma anche lì, secondo il Quirinale, ci sono stati dei piccoli e significativi passi avanti. Martina ha infatti segnalato la disponibilità del suo partito al “confronto” su tre o quattro temi specifici che però, guarda caso, sono anche i più trasversali: “Sostegno sociale con la possibilità di raddoppiare le risorse per il reddito di inclusione, il controllo della finanza pubblica, la gestione del fenomeno migratorio e l’impegno europeista, con la conferma delle alleanze internazionali”.

 

Il Pd, insomma, in caso di chiamata alla responsabilità, potrebbe dare una mano sui singoli di temi, supportando la prossima nuova maggioranza da fuori. Ecco perché i collaboratori del Capo dello Stato si sarebbero convinti che nel corso del prossimo giro di incontri potranno cadere tutti i veti e si potrà cominciare a “stringere”. A meno che Luigi Di Maio, che salirà al Colle nel pomeriggio, decida di ribaltare il tavolo. Al Quirinale non si aspettano un mossa del genere. Anzi, nel corso di alcuni colloqui si sarebbe condivisa l’opinione che i “nuovi arrivati” siano persone “affidabili”. Mattarella avrebbe chiesto una sola cosa, assolutamente fattibile: che si possa avere un esecutivo nel pieno dei poteri, che abbia incassato la fiducia di Camera e Senato entro il 28 giugno, quando è in calendario un Consiglio europeo chiamato a discutere della riforma dell’Unione.