Il sindaco di Torino Chiara Appendino (foto LaPresse)

Il M5s di governo a Torino fa i conti con la vera anima dei suoi consiglieri: l'antagonismo

Mario Sghembi

La vicenda delle Olimpiadi insegna che alla lunga i grillini rimangono ostaggi della propria propaganda. Non ce ne si può liberare in un sol colpo per la fregola di Palazzo Chigi

A volerla leggere nel più canonico dei modi, secondo le logiche e il lessico tipici della più vecchia politica, quella che ha investito Chiara Appendino è una classica crisi di maggioranza. E però i fattacci di questi giorni in Sala Rossa, più che la prova di forza di una fronda interna al consiglio comunale, sono in verità la manifestazione di tutte le contraddizioni che un movimento nato per scardinare le istituzioni si ritrova a vivere quando si reinventa dall’oggi al domani forza di governo.

 

La cronaca ormai è nota. Lunedì scorso, durante la seduta del Consiglio comunale chiamata a discutere di una mozione presentata dal Pd che impegnava la sindaca ad adoperarsi per sostenere la candidatura di Torino per le Olimpiadi invernali del 2026, la Appendino si è ritrovata senza una maggioranza. Il numero legale non c’era. Dei 25 esponenti che inizialmente costituivano la maggioranza – 25 contando anche la sindaca – in Aula ce n’erano solo 20. Una – Deborah Montalbano, 39enne disoccupata e assai vicina ai comitati popolari delle Vallette – aveva già abbandonato il gruppo all’indomani del 4 marzo, dopo mesi di angustie e di veleni sopiti solo nell’attesa che passasse il voto.

 

Un malcontento condiviso anche da altri suoi colleghi, del resto. In particolare da 4: quelli che, nella retorica semplicistica dei giornali, erano stati da tempo ribattezzati “l’ala movimentista” del gruppo. Cresciuti nell’orbita degli ambienti No Global torinesi, conoscitori e spesso soci dei centri sociali e dei comitati civici impegnati nella battaglia per i beni comuni, tutti e quattro si dichiarano fieramente No Tav – sigla che tutto rischiara e tutto nobilita, nel mondo antagonista Piemontese.

 

Anche per loro, l’incrinatura era partita nel settembre scorso, ai tempi del G7 del Lavoro ospitato da Torino, quando Luigi Di Maio aveva riunito i portavoce grillini mettendoli in guardia dal manifestare insieme ai comitati antagonisti in occasione dell’arrivo dei ministri di mezzo mondo: “Quelli sono i tavoli a cui anche noi ambiamo a sederci, a breve. Dunque niente proteste”. Per molti, è stato quello il segno dell’abiura. Da allora, sono passati mesi difficili, per loro e per la Appendino. Tensioni crescenti, crisi di nervi, riunioni finite con le lacrime della prima cittadina: il tutto a segnalare, al di là delle sacrosante divergenze, la difficoltà che il governare impone, e che impone soprattutto a chi ha infarcito i propri programmi di utopie, e poi si trova a doverle sfigurare per riuscire a salvare una partecipata o a chiudere un bilancio.

 

La partita delle Olimpiadi è arrivata al culmine di questi mesi, dopo che la scadenza elettorale passata in fondo senza troppo soffrire aveva segnato il “liberi tutti”. I grandi eventi, le grandi opere: su quel terreno i dissidenti della Sala Rossa – confortati anche da una buona parte del gruppo dei consiglieri regionali, tra cui il leader storico Davide Bono – sapevano che potevano giocarsi la carta della purezza, rivendicare la propria contrarietà come un segno di fedeltà alle origini. Anche per questo la Appendino ha richiesto l’intervento diretto di Beppe Grillo: a voler esibire la sua copertura politica rispetto a un’operazione che sembrava smentire anni di retorica ambientalista e decrescitista. E così, seppur schivi di fronte ai microfoni dei cronisti, sui social i riottosi non nascondevano la loro contrarietà. Con post indignati, con adesioni a gruppi di oppositori al progetto olimpico. Ma a lasciare il gruppo non ci hanno mai pensato: smaliziatisi ben presto nel gioco della politica, sapevano che la loro forza contrattuale era maggiore, dall’interno. E alla prima occasione utile lo hanno dimostrato.

 

Damiano Carretto, Viviana Ferrero, Daniela Albano e Marina Pollicino: assenti tutti e 4, lunedì scorso. Hanno staccato i cellulari e si sono resi irreperibili. L’indomani sono tornati a Palazzo Civico con una certa disinvoltura, disertando però il vertice di maggioranza richiesto dalla sindaca per trovare un chiarimento. La Appendino, alla fine, la strada verso la candidatura olimpica – una strada accidentata, specie dopo la non confortante prova di affidabilità della sua maggioranza – la percorrerà: senza troppa convinzione, e cercando di barcamenarsi tra le istanze di chi, anche nel suo gruppo, la vorrebbe un’amministratrice moderata e pragmatica, e chi invece – forte ormai di una formidabile arma di ricatto – la richiama al rispetto della storia e di un Movimento che doveva sovvertire il corso degli eventi. Nel mezzo, oltre ai destini della sindaca, ci stanno anche le ambizioni di Luigi Di Maio. Torino insegna che della propria propaganda alla lunga si rimane ostaggio, che del proprio passato recente non ci si può liberare in un sol colpo per la fregola di Palazzo Chigi. La mutazione, se dovrà esserci, non potrà essere rapida. Né indolore.

Di più su questi argomenti: