Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Movimento 5 sinistre

Marianna Rizzini

Di Maio si presenta da “vincitore assoluto” ma intanto cerca strade verso “la responsabilità del governo”

Roma. “Siamo i vincitori assoluti. Rappresentiamo l’intera nazione, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, cosa che non si può dire di altre forze territoriali”, dice il candidato premier a Cinque stelle Luigi Di Maio la mattina della vittoria, e si capisce che parla perché Lega intenda. “Il risultato ci proietta verso il governo. Le coalizioni non hanno i numeri, noi ci prendiamo la responsabilità”, dice, promettendo dialogo “con tutti” e guardando alla sinistra tramortita dallo schiaffone delle urne. Il candidato premier del M5s si presenta dopo una notte in silenzio, con il 32 per cento dei consensi e la palma del primo partito. Vittoria che si fa di ora in ora evidente e al tempo stesso sfuggente: non basta per l’autarchia. Questione di seggi, e di contrattazione politica finora aborrita nel mondo dell’ex vaffa.

 

E infatti la contrattazione politica non si nomina nemmeno: si parla di “temi”, “programma”, “convergenze”, “rosa di nomi per le presidenze delle Camere”. Si dovrà fare senza dirlo, e prima di arrivare al Colle: lanciare messaggi, offrire qualcosa, chiedere, raggiungere un compromesso, cercare interlocutori. Intanto, la mattina del “trionfo”, come ripete Di Maio, si cerca di non farsi inchiodare alla possibilità numerica che porterebbe verso la Lega (ipotesi che al momento nel M5s non è prioritaria, e nella Lega neanche: ieri Matteo Salvini metteva un freno teorico all’idea di “governi strani”). E si prova a scrutare il centrosinistra esangue, ché un Pd “derenzizzato” viene considerato, tra i Cinque Stelle che hanno immaginato nell’ipotetica “squadra” ministri “keynesiani” o “pacifisti”, un viatico per la soluzione “dialogo a sinistra”, cioè con il Pd stesso e con l’ancora più esangue LeU (quasi una beffarda riedizione al contrario dello scouting tentato verso il M5s, nel 2013, dall’ex segretario pd Pier Luigi Bersani, ora colonna di LeU). Tuttavia a sera la partita non ancora giocata sembra complicarsi: Renzi si dimetterà, sì, pur restando in carica fino alla formazione di un nuovo governo, ma non prima di aver lanciato all’indirizzo della minoranza del suo partito, quella che potrebbe raccogliere il cenno a Cinque Stelle, le parole che rendono più difficoltosa la strada ai pontieri: “Il Pd va all’opposizione”.

 

Intanto, dopo la notte di euforia tenuta a freno proprio per via della non certezza della mèta (Palazzo Chigi? La presidenza di una Camera?), la linea nel M5s resta quella indicata da Alessandro Di Battista qualche ora prima dell’alba, con parole meno diplomatiche di quelle pronunciate da Di Maio: “Tutti dovranno venire a parlare con noi e seguire il nostro metodo”, aveva detto il tribuno non ricandidato ma presente a tutti gli effetti, e la frase era sembrata vagamente minacciosa, eppure indicativa. Stessa cosa era accaduta quando Paola Taverna, meno guardinga dei colleghi, in risposta alla domanda “e ora che cosa farete?”, aveva risposto al Tg7: “Andiamo a governare”.

 

E ieri mattina – mentre Beppe Grillo abbracciava i suoi “ragazzi” ed esultava, non a caso dando già per eliminato l’intralcio lungo la via del possibile passaggio a sinistra (“abbiamo biodegradato Renzi”), e mentre i cronisti cercavano invano lumi nelle parole del neoeletto m5s ed ex collega Emilio Carelli, si producevano diverse versioni dello stesso ritornello: “Il M5s comincia a stare sulle sue gambe e ci sta molto bene”, diceva il “ministro” ipotizzato della Giustizia Alfonso Bonafede, che la notte precedente aveva definito il M5s “pilastro della prossima legislatura”: “Ora è giusto che ci prendiamo le nostre responsabilità con un ruolo da protagonisti… Senza maggioranza il confronto sarà sui temi: reddito di cittadinanza, sicurezza… ” (durante la notte Riccardo Fraccaro aveva parlato allo sfinimento di “contenuti” e “buona politica” al posto degli scambi “di poltrone”). E Danilo Toninelli, considerato uno dei possibili pontieri verso sinistra per via della consuetudine a parlare con le altre forze politiche di legge elettorale durante la legislatura appena chiusa, insisteva sul punto: “Siamo la prima forza politica, l’unica che ha un’importante rappresentanza in tutta la nazione. Qualsiasi governo deve passare da noi. Presenteremo una rosa di nomi per le presidenze delle Camere, alla luce del sole… figure di garanzia. I vecchi partiti devono fare un salto di qualità, pensare ai cittadini”. E mentre Piero Grasso, da LeU, ammetteva il risultato al di sotto delle aspettative e apriva al “dialogo con Pd e M5s ma in Parlamento”, Toninelli lanciava il wishful thinking: “Troveremo i numeri” e Di Battista l’epitaffio: “Il Pd? E’ già senza Renzi”.

Di più su questi argomenti:
  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.