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L'importanza del piano B

Claudio Cerasa

Vincere il 4 marzo sarà dura. Tutte le piste da seguire per non farsi trovare impreparati

“Non l’assenza di ogni compromesso,

ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”

Joseph Ratzinger, 26 novembre 1981

 

Quante sono le sfumature di una vittoria? A sei giorni dalla fine della campagna elettorale, l’immagine forse migliore per mettere a fuoco le traiettorie dei vari partiti che con ambizioni diverse si avvicinano veloci al voto del 4 marzo è simile a quella che molti di voi in questi giorni hanno visto nelle proprie città: la neve. La campagna elettorale, in fondo, è come una nevicata che improvvisamente prende possesso dei nostri sguardi, facendoci dimenticare in modo più o meno traumatico tutto quello che viene ricoperto dai fiocchi di neve. E in un certo senso, se vogliamo, lo stato d’animo in cui si ritrovano oggi gli elettori di Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Pietro Grasso è simile a quello che di solito hanno i bambini di fronte alle grandi nevicate: per qualche giorno la scuola è chiusa, per qualche giorno tutto si ferma, per qualche giorno si pensa di poter fare qualsiasi cosa, poi però la neve si scioglie, le strade tornano libere, la scuola riapre, la magia finisce e ritorna la realtà. Per tradurre la metafora in politica, la grande e magica illusione portata avanti per mesi da molti protagonisti di questa campagna elettorale è stata quella di rivolgersi ai propri elettori facendogli credere quello che ora dopo ora è sempre più chiaro che non è. Ovvero: il prossimo 4 marzo non si andranno a scegliere i candidati premier dei partiti come successo per anni dal 1994 al 2013 (e come molti vorrebbero ancora oggi far credere) ma si andranno a scegliere i parlamentari che daranno la fiducia al presidente del Consiglio che verrà scelto dal presidente della Repubblica dopo lunghe e forse lunghissime consultazioni. E così, più ci si avvicina al 4 marzo più risulta chiaro che l’idea che questa campagna elettorale sia uguale a tutte le altre è solida come un fiocco di neve colpito da un raggio di sole.

 

I candidati premier non esistono, e questo lo sappiamo, ma come è facile indovinare leggendo tra le righe dei discorsi dei non candidati premier è sempre più chiaro che tutti sono consapevoli che il 5 marzo non ci sarà un vincitore. O forse ce ne saranno quattro.

 

Luigi Di Maio lascia intendere di considerare una vittoria la trasformazione del Movimento 5 stelle nel primo partito d’Italia. Matteo Renzi lascia intendere di considerare una vittoria la trasformazione della coalizione del centrosinistra nel primo gruppo parlamentare d’Italia. Silvio Berlusconi e Matteo Salvini sono gli unici ad avere la possibilità di vincere insieme le elezioni – se alla Camera Lega e Forza Italia arriveranno a 300 seggi, ovvero a 16 seggi in meno rispetto a quelli necessari per avere una maggioranza, un governo di centrodestra in qualche modo nascerà – ma entrambi lasciano intendere di essere pronti a considerare una vittoria anche la sola prevalenza del proprio partito rispetto a quello alleato all’interno della coalizione. In tutti e quattro i casi non si tratta però solo di esercizi retorici preventivi utili a minimizzare una possibile non vittoria. Si tratta di qualcosa di più: si tratta di rendere esplicito il criterio che ciascun partito considera più appropriato in vista del futuro incarico che il Quirinale conferirà per la formazione di un governo. E anche se ovviamente non si può dire, la vera partita che tutti i capi di partito stanno giocando in queste ore non è tanto (o non solo) quella di vincere le elezioni ma è quella di avere il maggior numero possibile di voti per guidare le danze a partire dal cinque marzo. E dunque fare un po’ di ordine può essere utile e forse conviene partire da qui: quali sono i piani B di tutti i partiti?

 

Tutto naturalmente dipenderà dai risultati del 4 marzo ma allo stato attuale ogni partito ha una strategia più o meno chiara per provare a contare a partire dal cinque marzo. E dalle informazioni raccolte dal Foglio, incrociate con quelle raccolte da altri giornali in questi giorni, la situazione è grosso modo questa. Luigi Di Maio – che ha solo 31 anni ma che al momento sa già di essere al suo ultimo giro di giostra al Parlamento, essendo al suo secondo mandato e dunque l’ultimo in base al regolamento grillino – tenterà in tutti i modi di far arrivare al Movimento 5 stelle una “legittimazione istituzionale”. E quello che il “candidato premier” ha fatto filtrare qualche settimana fa a Londra (salvo poi smentirlo) corrisponde a realtà: a certe condizioni, il Movimento 5 stelle, o almeno un pezzo di esso, non dirà di no alla nascita di un governo guidato da un esponente di un altro partito. Chi nelle ultime settimane ha avuto la possibilità di parlare con il Quirinale suggerisce di tenere a mente una pista precisa: se, in caso di stallo, il 23 marzo, nel segreto dell’urna, i parlamentari voteranno a maggioranza Luigi Di Maio come presidente della Camera, il Movimento 5 stelle, o almeno un pezzo di esso, accetterà di essere coinvolto, o quanto meno di dare un sostegno esterno, a un esecutivo di larghe intese. Di centrosinistra, nel caso in cui i voti del Pd e quelli di Grasso dovessero essere sufficienti a far nascere un governo (è la linea di quel mattacchione di Michele Emiliano che potrebbe essere applicata solo nel caso di un clamoroso ridimensionamento del Pd, ovvero con un Renzi che non arriva nemmeno al 20 per cento). O anche insieme con Pd e Forza Italia nel caso in cui il presidente della Repubblica dovesse convincersi che l’unica formula di governo possibile sia quella a guida tecnica. E in fondo, una formula del genere non è mai stata considerata un tabù dai grillini: “Una soluzione per guadare la melma in cui siamo immersi – disse Beppe Grillo nel 2010 ai tempi del governo Berlusconi – è un governo tecnico di durata sufficiente per mettere, per quanto si può, sotto controllo il debito pubblico che sta esplodendo nel silenzio generale, per ridare la scelta del candidato agli elettori”. I piani B più gustosi, e forse più realistici da mettere in pratica, sono però quelli che riguardano altre formule algebriche che ovviamente sono oggi da tutti negate ma che più ci si avvicina al ritorno a scuola – ovvero al 5 marzo, giorno in cui la neve della campagna elettorale si scioglierà e il pallino tornerà in mano al preside della Repubblica – e più risultano le più percorribili in caso di non vittoria del centrodestra. Il piano B numero uno ovviamente è (Dio la benedica) la grande coalizione, anche se in realtà la grande coalizione non ha un’unica formula possibile ma ne ha addirittura quattro. La prima formula è quella tradizionale che vedrebbe insieme Forza Italia e Partito democratico, sostenuti dalla quarta gamba del centrodestra e dagli alleati del Pd (e se dopo le elezioni il Pd renziano farà filtrare l’idea di essere disposto a fare un governo anche con Di Maio, è possibile che sia solo una strategia per mettere alle strette Forza Italia). Gli ultimi sondaggi diffusi prima del blackout indicavano una maggioranza possibile al Senato per queste quattro forze (ma non alla Camera) immaginando un Pd con 59 seggi, una Forza Italia con 82 seggi, gli alleati del Pd con 14 seggi e Noi con l’Italia-Udc con 6 seggi (somma 161). La seconda formula, più creativa, è una formula che prevederebbe una doppia scomposizione. Da una parte, sul lato della Lega, il fronte più legato a Roberto Maroni. Dall’altra parte, sul lato di Liberi e uguali, il fronte più legato a Vasco Errani e persino a Massino D’Alema. Insieme, stando sempre alle proiezioni disponibili prima del black out, con queste micro divisioni una maggioranza allargata sarebbe possibile anche se sarebbe complicata da gestire e giustificare. La terza formula, ancora più creativa, è una formula che sarebbe mutuata al cento per cento da quella tedesca. In Germania, proprio il 4 marzo, i tre partiti che proveranno a far nascere un governo sono l’equivalente del Pd (Spd), l’equivalente di Forza Italia (Cdu) e l’equivalente della Lega (Csu). Immaginare oggi un governo formato da Renzi, Berlusconi e Salvini sembra pura fantascienza ma in fondo era anche fantascienza l’idea che Renzi, Berlusconi e Salvini potessero dar vita insieme alla legge elettorale con cui si andrà a votare il 4 marzo e nonostante tutto è dal 5 dicembre del 2016 che tra il segretario del Pd e il segretario della Lega, al netto degli insulti, esiste un pragmatico canale diretto di dialogo e la possibilità che all’interno di questo triangolo possa maturare quantomeno una maggioranza parlamentare per le riforme nella prossima legislatura è uno dei fili che andranno seguiti con attenzione nel dopo elezioni. La quarta formula, la più remota, è la formula che starebbe più a cuore al presidente della Repubblica in caso di stallo: un governo con tutti dentro, anche se si dà il caso che questa sia esattamente la formula a cui pensano sia Matteo Renzi sia Silvio Berlusconi quando dicono che in caso di stallo preferirebbero tornare a votare.

 

Nel grande romanzo elettorale esistono poi delle strategie non confessabili che riguardano gli equilibri interni ai singoli partiti e alle singole coalizioni che meritano di essere descritte. Il Movimento 5 stelle anche in campagna elettorale tende a non lasciar spazio a nessuna forma di dissenso ma nei colloqui privati avuti con pezzi da novanta delle istituzioni Luigi Di Maio ha raccontato di essere molto preoccupato per la tenuta del suo partito in caso di non vittoria. E anche per questo, per non essere costretto a fare solo opposizione nei prossimi cinque anni, tenterà in tutti i modi di dimostrare che comunque andranno le cose è necessario che il fronte movimentista (Di Battista, Fico) rimanga a lungo sotto la superficie dell’acqua perché il Movimento 5 stelle (tesi di Di Maio) deve necessariamente provare a ripetere nella XVIII legislatura (ci viene da ridere solo a scriverlo) quello che dieci legislature fa riuscì a fare il Pci guidato da Enrico Berlinguer durante il terzo governo Andreotti, quando Ingrao arrivò alla presidenza della Camera. Ovverosia: essere percepito anche a livello internazionale non solo come uno sterile partito di protesta ma anche potenzialmente di governo.

 

La partita del Movimento 5 stelle è semplice. Più complessa è invece quella degli altri partiti. Proviamo a mettere insieme i tasselli del mosaico sia per quanto riguarda il centrodestra sia per quanto riguarda il centrosinistra. Nel centrodestra – dove Berlusconi sa di avere buone possibilità di andare al governo con Salvini (si gioca tutto su trenta collegi al sud d’Italia, come ha scritto ieri Marcello Sorgi sulla Stampa) ma nonostante questo non fa mistero con diversi interlocutori di augurarsi di andare al governo con l’altro Matteo, arrivando persino a sostenere che in un governo tra Forza Italia e Pd chi guida il partito e ha più voti dell’altro partito avrebbe il diritto di portare il suo capopartito a Palazzo Chigi – il voto del 4 marzo non sarà soltanto un voto per tentare di conquistare il governo. Ma sarà anche un voto finalizzato a certificare qualcosa di più: Matteo Salvini avrà o no i numeri per trasformare la Lega nel nuovo centro di gravità del centrodestra? Avrà o no i numeri per convincere gli elettori e i dirigenti di Forza Italia che la destra italiana ha un futuro solo se sceglie di investire le sue azioni su un profilo più salviniano che berlusconiano? E’ forse semplicistico metterla così, ma la ragione per cui Forza Italia (e soprattutto il Cav.) tenteranno in tutti i modi di avere anche uno zero virgola in più rispetto alla Lega è legata al fatto che il voto del 4 marzo per il centrodestra coinciderà con una grande sessione di primarie relative al futuro del centrodestra. E se Salvini (e la sua destra che prenderà voti più per la sua posizione sull’Europa, euro no grazie, e sugli immigrati, con tanto di lode di CasaPound, che per le sue idee sulle tasse) dovesse davvero prevalere su Berlusconi, sarà difficile non vedere moltiplicate le traiettorie alla Giovanni Toti – governatore di Forza Italia diventato un attimo dopo la sua elezione più salviniano che berlusconiano. C’è tutto questo nel centrodestra – dove Gianni Letta e Fedele Confalonieri sono giustamente preoccupati dalla sola idea che Forza Italia possa governare alla pari con un partito come la Lega, profondamente diverso da quello guidato da Bossi e il cui Dna oggi è la negazione più profonda di tutti i princìpi che dovrebbero essere presenti in un centrodestra moderato – ma c’è anche molto altro. E c’è comunque l’idea che in un modo o nell’altro, dopo cinque anni di gioco di rimessa, sarà il centrodestra a dettare i tempi della prossima legislatura. Difficile che tutto questo avvenga con Salvini – la profezia consegnata tempo fa da Roberto Maroni a questo giornale non sembra campata in aria: quando il centrodestra fa accordi per vincere le elezioni senza preoccuparsi dei governi quei governi di solito durano pochi mesi come accadde nel 1994 con Berlusconi e Bossi. Più probabile invece che tutto questo avvenga in un modo o in un altro con Forza Italia, che pur rischiando di avere come partito meno parlamentari di Pd e Movimento 5 stelle potrebbe essere il partito a cui verrà affidato l’incarico per formare un governo, nel caso in cui il presidente della Repubblica dovesse seguire una prassi consolidata nella Prima Repubblica. Ovvero sia: dare l’incarico non genericamente alla prima forza politica per numero di parlamentari ma alla forza politica in grado di aggregare il numero più alto di parlamentari. E dunque, dovesse essere qualcuno di Forza Italia, su chi scommetterebbe Berlusconi? Qui la fantapolitica si fa sempre più fanta ma nella rosa del Cav. i nomi sono tre. Antonio Tajani, prima scelta. Franco Frattini, seconda scelta. Mara Carfagna, terza scelta.

 

Il partito però che indubbiamente si avvicina alle elezioni del 4 marzo con il numero maggiore di micro storie presenti nella storia più grande è il Partito democratico il cui segretario e capo politico, ovvero Matteo Renzi, sa perfettamente che a prescindere da quale sarà il risultato degli altri non potrà non aprirsi un processo nel proprio partito qualora la percentuale di voti raccolti dal proprio Pd dovesse essere inferiore a quella raccolta da Pier Luigi Bersani nel 2013. Nel 2013, il mondo renziano fece notare spesso all’ex segretario del Pd che il 25 per cento ottenuto da Bersani (8,6 milioni di voti ottenuti, 4 milioni di voti persi rispetto al 2008) coincise con la percentuale di voti più bassa mai ottenuta dal principale partito della sinistra italiana dal 1963. Un 25 per cento dopo cinque anni di tosti governi a guida Pd – e con una scissione per giunta fresca – sarebbe un 25 per cento molto diverso rispetto a quello ottenuto da un Pd che nel 2013 arrivò alle elezioni dopo aver dato il suo appoggio a un governo tecnico per poco più di un anno e mezzo. Ma andare sotto quella soglia psicologica, aprirebbe oggettivamente un processo nel Pd che Renzi potrebbe affrontare forse solo a condizione di portare il suo Pd sopra il 20 per cento e solo probabilmente a condizione di riconvocare nel minor tempo possibile un altro congresso per ridiscutere la leadership del partito. Il processo a Renzi è un tema possibile del dopo elezioni (così come un tema del dopo elezioni sarà se il buono o il cattivo risultato del Pd sarà da attribuire più al partito o più al governo). Ma in attesa del 4 marzo esiste già un altro processo in corso nel Pd che riguarda un tema solo apparentemente scontato: nel caso in cui la girandola delle consultazioni dovesse mettere il cerino in mano al Pd, il capo del Pd su quale candidato premier scommetterebbe per condurre le consultazioni? I molti endorsement rivolti in questi giorni a Paolo Gentiloni da alcuni pezzi da novanta del centrosinistra (Prodi, Napolitano, Veltroni) lasciano intendere che la persona giusta a cui affidare l’incarico per cercare una maggioranza di governo dovrebbe essere direttamente l’attuale premier e non il capo del partito. E anche se il presidente del Consiglio in carica non cadrà nella tentazione di marcare una distanza con il segretario del Pd – cosa che non è mai successa, anche perché il premier sa che senza Renzi non sarebbe mai riuscito a fare tutto quello che ha fatto in questi anni – è innegabile che nel mondo del centrosinistra esista oggi una forte pressione a scommettere proprio su Gentiloni per provare sia a costruire in un modo o in un altro un Pd alternativo a quello di Renzi sia per provare persino a riacciuffare la sinistra uscita dal Pd. Su Gentiloni ed eventualmente anche su Nicola Zingaretti, nel caso in cui l’attuale governatore del Lazio dovesse vincere contro Roberta Lombardi e Stefano Parisi (in regione Zingaretti testerà una coalizione più larga rispetto a quella con cui il Pd si presenta alle elezioni, c’è anche Grasso, e che nel 2013 riuscì a portare alle regionali un numero di voti sulla lista di centrosinistra infinitamente più grande rispetto a quello portato nello stesso giorno da Bersani, 1.330.398 contro 762.535). Nella geometria delle combinazioni possibili e impossibili che abbiamo messo insieme in questo piccolo affresco – e dal 4 marzo per chi volesse fare un corso accelerato sulle virtù del buon compromesso consigliamo di rileggersi la famosa omelia tenuta da Josep Ratzinger il 26 novembre 1981 durante una liturgia per i deputati cattolici del Parlamento tedesco nella chiesa di San Winfried a Bonn – esiste poi un’altra formula che forse rappresenta il più grande spauracchio possibile per il dopo elezioni: l’alleanza Di Maio-Salvini. Sia Di Maio sia Salvini sanno che avrebbero entrambi da perdere con una formula del genere anche se non c’è dubbio che su Europa, vaccini, globalizzazione e politica estera le traiettorie del Movimento 5 stelle e della Lega siano simili tra loro. Ma se la strategia del Quirinale non sarà una strategia formalista finalizzata a fare di tutto per avere un governo disinteressandosi dal tipo di governo (opzione che a giudicare dalla traiettoria seguita in questi mesi da Mattarella andrebbe però esclusa) l’opzione Di Maio-Salvini è un’opzione che esiste solo per non farci dormire sereni da qui al quattro marzo. I numeri però sono numeri e la storia recente dell’Europa ci ha dimostrato che anche le combinazioni impossibili possono diventare possibili (nel 2015, in Grecia, Tsipras, a capo di un partito di estrema sinistra, arrivò al governo grazie al sostegno di un partito nazionalista di estrema destra, chiamato Anel). E sulla carta è dunque un’opzione che non si può escludere e il 4 marzo vale dunque la pena ricordarselo quando metteremo le nostre X sulla scheda elettorale. Siamo pronti a tutto, ma il governo Travaglio-Paragone-Davigo-Salvini anche no, grazie. Ne riparleremo. Intanto, buona neve a tutti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.