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Liberare la politica dal cappio letale dei social network. Intervista a Marco Minniti

Claudio Cerasa

La brutalizzazione del dissenso. Il dramma della democrazia bonsai. Lo specchio deformante della rete. J’accuse del ministro dell'Interno contro la politica dell’irresponsabilità: “Non si governa con Facebook”

"Ci sono entrato una volta ma non lo farò mai più. Credo che sia arrivato il momento di fare uno sforzo, di ribaltare alcuni equilibri e di smetterla di porre la politica alle dipendenze di un social network: di filtri che possono diventare specchi deformanti”. Negli ultimi mesi, Marco Minniti è stato al centro del dibattito pubblico per ragioni legate al metodo muscolare scelto dal ministro dell’Interno per affrontare alcune emergenze che hanno impattato sul nostro paese – i flussi migratori, il terrorismo, la gestione della sicurezza sul territorio. Ma c’è un altro fronte, forse meno pragmatico eppure non meno interessante, sul quale le posizioni del ministro potrebbero far discutere: cosa può fare la politica per evitare che i social network, come ha denunciato dieci giorni fa l’Economist, diventino un pericolo per la democrazia? Su questo fronte il profilo di Minniti è interessante perché pur essendo uno dei ministri più popolari del governo il numero uno del Viminale ha fatto una scelta curiosa: evitare i social network. Niente Facebook. Niente Twitter. Niente Instagram. Nulla di nulla. Non lo ha fatto finora e, dice Minniti in questa conversazione con il Foglio, non lo farà nemmeno in campagna elettorale. Perché, ministro?

 

“Perché voglio evitare l’inganno dello specchio deformante, cosa che chi dirige un paese o svolge comunque ruoli di responsabilità non può concedersi”. Traduciamo? “Volendo usare termini impegnativi, i social hanno cambiato profondamente sia la comunicazione sia i processi di formazione della coscienza individuale. Hanno cioè consentito di avere uno scambio reale, e in tempi velocissimi, di masse di informazioni, oltreché di verificare in presa diretta i reciproci punti di vista: una cosa senza precedenti. Ma tutto questo ha contribuito a modificare l’identità di un individuo attraverso una innovazione a mio avviso pericolosa: constatare in qualsiasi momento il proprio apprezzamento. O almeno, avere l’illusione di poterlo fare. Questo processo ha costruito uno specchio deformante: perché ti induce a pensare che il consenso relativo – ovvero quello che riscuoti nella tua cerchia di amici – corrisponda al consenso assoluto”.

 

E il problema dov’è? “Costruirsi una sorta di democrazia bonsai, dove diventa naturale relazionarsi solo con coloro che ci sono più vicini. Il cuore di una democrazia è avere rapporti con quelli che non la pensano come te. Difendere il loro diritto a esprimere la propria opinione. E questo, evidentemente, genera una progressiva brutalizzazione del dissenso e una brutale razionalizzazione del pensiero. Non esistono più le zone grigie e i compromessi e chi vuole manifestare la propria contrarietà lo fa, senza alcun filtro, nella maniera più primordiale possibile. Per questo, lo specchio deformante può finire con l’indurti a non assumerti le giuste responsabilità”.

 

Il vincolo di coerenza con l’elettorato

Spieghi meglio. “La politica, e soprattutto la politica di governo, deve avere una sua autonomia. Ma se tu, nel momento in cui prendi una decisione, sei sempre portato, o costretto, a verificarne immediatamente l’impatto in un orizzonte ristrettissimo che è quello della tua cerchia di contatti, i quali possono dirsi solo ‘favorevoli’ o ‘contrari’, senza sfumature, allora rischi di non fare più scelte di prospettiva. E’ una logica che valeva prima dell’avvento dei social ma oggi esiste un condizionamento più forte, in presa diretta. Un tempo, per non prendere una decisione, si utilizzava il concetto del ‘ce lo chiede la base’. Oggi abbiamo fatto un passo in avanti e non le nascondo lo sconcerto quando mi ritrovo di fronte qualcuno che dice: ‘Quest’idea no, è stata bocciata sui social’”.

 

Ci sta dicendo che se Minniti fosse stato iscritto a Facebook o a Twitter avrebbe agito in modo diverso da come ha agito da ministro? “Non ho la controprova, però sarebbe stato molto complicato prendere molte delle decisioni che ho preso”. Per un politico quali sono i confini che il senso di responsabilità deve imporre rispetto all’utilizzo di un social? “Tutto sta nella selezione e nella formazione di una classe dirigente, per la quale la rete sia sì un aspetto della realtà di cui tenere conto, ma appunto uno dei molti. Chi delega i propri follower a prendere le decisioni che un politico dovrebbe prendere, distrugge la politica. Io credo che ogni eletto abbia un vincolo di coerenza morale con il proprio elettorato, non con il pezzo di rete che lo segue sui social. Una democrazia che diventa ostaggio di una falsa trasparenza è una democrazia che non è più libera di decidere e che dunque è un po’ meno libera. La democrazia del clic è il contrario della politica, perché, in quest’ottica perversa, un amministratore non ha che da limitarsi a scegliere quello che gli suggeriscono gli altri”. Immagino sia contrario alla revisione dell’articolo 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. “Assolutamente. E anzi, di fronte a tutto ciò, io estremizzo l’enfasi sulla necessità della segretezza del voto e dell’autonomia degli eletti: l’unico modo che ha il politico di agire liberamente, e di rispondere al dettato costituzionale che ci obbliga grazie al cielo a essere eletti senza vincolo di mandato, è valido solo quando non si alimenta l’illusione della trasparenza. E’ valido solo quando si agisce in un modo esente da qualunque giudizio e non condizionato da qualcuno. L’idea dell’uno vale uno è una semplificazione ma se c’è un momento in cui può avere un senso parlare di uno vale uno quel momento coincide con l’attimo in cui l’elettore può votare in modo segreto”. E’ preoccupato anche da chi cerca consenso sui social? “E’ ovvio che la politica si gioca sul consenso. Ma una cosa è la legittima, sacrosanta, ricerca del consenso, un’altra è l’ansia di assecondare i follower”. Ci dica quando ha peccato. “Con i social, una sola volta. Ho partecipato a una bellissima Terrazza Pd e i dirigenti del partito mi dissero che durante quello streaming ci furono numeri pazzeschi. In termini di condivisioni e like. Fui preso da una irrefrenabile curiosità di capire cosa fosse successo. Ho cominciato a leggere qualche commento. Ma capii subito che non lo avrei più fatto. Era bellissimo ma era come una droga. E per un politico essere dipendente da una droga che condiziona le tue scelte può essere letale, non trova?”.

 

Classe dirigente, social, populismo

Esiste un rapporto tra la proliferazione del populismo e la proliferazione dei social network? “Questo no. Il populismo è un fenomeno che ha sempre accompagnato le democrazie e provare a spiegare l’evoluzione del populismo attraverso gli strumenti della tecnologia lo trovo pigro”. E c’entra qualcosa con la proliferazione del populismo il fatto che le classi dirigenti abbiano rinunciato a svolgere un ruolo di contrappeso rispetto all’isteria e al rumore di fondo della rete? “Assolutamente sì. In ‘Anatomia di un istante’, Javier Cercas racconta che quando il colonnello Tejero entra nel Congresso di Madrid e spara in aria tutti i deputati si rintanano sotto gli scranni. Tutti tranne tre, che restano seduti ai loro posti: Adolfo Suárez, allora primo ministro e, in quanto presidente della televisione spagnola, considerato l’emblema del franchismo da superare; il generale Manuel Gutiérrez Mellado, ritenuto ormai un vecchio arnese; e Santiago Carrillo, segretario del Partito comunista. Ora, si potrebbe osservare che restare seduto al proprio scranno è un atto assolutamente normale, per un parlamentare, e concludere pertanto che i tre non abbiano fatto nulla di particolarmente eroico. Ma è proprio quella normalità a cambiare il corso delle cose”. Ci sta dicendo che in Italia esiste una classe dirigente che si nasconde quando si manifesta un pericolo? “Io dico che una vera classe dirigente non si nasconde. Non può nascondersi”. Minniti si ferma un attimo e mostra al suo interlocutore quattro libri consigliati a chiunque voglia vaccinarsi dai germi del neo populismo. I libri sono poggiati sull’angolo a destra della sua scrivania e il ministro li presenta con orgoglio. “Thinking, Fast and Slow”, di Daniel Kahneman. “The Once and Future Liberal”, di Mark Lilla. “Putin: His Downfall and Russia’s Coming Crash Hardcover”, di Richard Lourie. “Why Nation fails”, di Daron Acemoglu e James A. Robinson. Il ministro sfoglia alcune pagine, esibisce alcune pagine sottolineate, spiega che i quattro libri sono preziosi per capire la fase storica in cui viviamo e poi ritorna a conversare con noi. Il passaggio è un po’ brusco ma da Mark Lilla ci tocca passare al Pd. Ministro Minniti, ma lei pensa che il suo partito, il Pd, sia immune dalla sindrome dei social? “La mia idea è che i partiti, e ripeto i partiti, sono un antidoto a tutto quello che abbiamo descritto. L’ancoraggio alla realtà, l’incrocio trasparente di vita collettiva è un riequilibrio nel rapporto tra l’individuo e l’altro, che attraverso la rete viene distorto, perché la collettività in rete non è mai effettiva, ma è piuttosto la mera somma di individualità. Un partito è invece – o dovrebbe essere – un’espressione della collettività. Ed è per questo che, al di là di qualunque svilimento possibile, le primarie sono un istituto importante”. Che c’entrano le primarie? “Con le primarie non basta premere un tasto, bisogna andare fisicamente a votare, e dunque recarsi in un seggio, e dunque presentare un documento da mostrare a qualcuno che ti riconosce. Insomma, il problema non è che nelle primarie online votano 25 o 30 persone: il discrimine non sta solo nei numeri, ma nello strumento in sé. Fossero pure due milioni, le preferenze espresse online, per me sarebbero comunque insoddisfacenti”. E perché? “Perché nel voto che dai premendo un pulsante c’è una minore intenzionalità. Troppo a cuor leggero, troppo poco impegnativo: non ti costringe a uscire di casa, non ti costringe a dedicare a quell’atto democratico una parte del tuo tempo”.

 

Ci sta dicendo che la democrazia deve avere un costo? “Sì. In democrazia le procedure sono fondamentali. Il compito di chi governa, poi, è senz’altro quello di renderle il meno barocche possibile. Ma una democrazia senza procedure non esiste”. Quanto ha influito nell’intervento a Ostia il fatto che l’immagine della testata di Roberto Spada a Daniele Piervincenzi fosse diventata virale? “Ha influito. In questo caso i social, anche grazie all’eloquenza del video, hanno avuto un effetto positivo. Succede, a volte. Ma bisogna sempre essere pronti a governare quei flussi di reazione, non lasciandosene invece travolgere”. E’ convinto anche lei che tra coloro che provano a governare i flussi di reazione, o forse sarebbe meglio dire di azione, ci sia qualche paese straniero, come la Russia, intenzionato a destabilizzare le democrazie occidentali? “Non ho elementi per dire se c’è un paese che vuole destabilizzare le democrazie occidentali. Posso dire però che il rischio c’è. E non a caso è doveroso oggi più che mai dotarsi di sistemi di protezione adeguati. Bisogna investire di più nella cyber-security. Questo governo ha recentemente aggiornato la direttiva Monti, quella del 2013, intervenendo su tre punti: interdisciplinarità, centralità dei servizi segreti come punto di riferimento dell’intero sistema, collaborazione con le aziende e l’accademia. Avendo così la capacità di difendere la formazione delle idee. Perché all’interno di una realtà virtuale, tutto può essere condizionato in qualunque momento. La forza di una democrazia è avere a disposizione di tutti degli strumenti condivisi per la difesa collettiva. Ma mi permetta di dire di più. Il rapporto con un algoritmo in fondo è una questione che da tempo agita il pensiero moderno. Dobbiamo essere noi a utilizzare la modernità e non può essere la modernità a utilizzare noi. Alan Turing, il matematico inglese che decifrò il codice Enigma, era convinto che l’intelligenza artificiale potesse sostituire e superare quella umana; io penso di no, penso che alla fine siamo sempre noi a dover governare la macchina. Tra l’uomo e l’algoritmo, io scelgo l’uomo. Penso di essere stato chiaro, no?”.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.