Il sindaco di Torino, Chiara Appendino, con il candidato premier del M5s, Luigi Di Maio (foto LaPresse)

La deriva è Chiara

Valerio Valentini

Inesperienza, approssimazione, scarsa visione del futuro e promesse mancate. Per capire come sarebbe l’Italia di Di Maio bisogna guardare la Torino di Appendino

In fondo è inevitabile che si guardi soprattutto a Roma. E’ la capitale d’Italia, la città più popolosa, il centro di gravità di poteri e interessi sempre all’attenzione di giornali e telegiornali. I quali, peraltro, hanno proprio a Roma, perlopiù, le loro sedi principali: e allora ecco l’accanirsi sulle buche, l’insistere sui ritardi della metro. Senza contare, poi, quella tendenza tutta romana a esasperare i propri difetti, quasi facendosene vanto, quell’indolenza nel vedere accumularsi i problemi stringendosi nelle spalle, quel gusto per lo sbraco che rende ogni guaio, fatalmente, più drammatico. E insomma si spiega senza troppa fatica il motivo per cui le inefficienze di Roma vengano costantemente considerate, in onore a una retorica piuttosto semplicistica, emblematiche delle storture del paese. Anche col Movimento 5 stelle, dopo tutto, è andata così. Quando si è cercato di capire quali effetti produce l’entrata di un manipolo di novizi della politica, fedeli alle direttive di una srl, nelle stanze dei bottoni, si è guardato al Campidoglio – e agli assessori cambiati a ogni cambio di vento, e alle chat compromettenti, e alla rara capacità di collezionare delle figuracce in mondovisione perfino quando si trattava di addobbare piazza Venezia per il Natale. Ma cosa accade, se anziché focalizzarsi sugli insuccessi di Virginia Raggi, si provasse a verificare l’effettiva capacità di governo dei grillini analizzando l’altra grande città da loro amministrata?

 

Rispetto a Raggi Appendino ha molti meno alibi per giustificare i suoi insuccessi: dopo un anno e mezzo di governo il bilancio è pessimo

“Vabbe’, il paragone con Roma non regge: Torino è comunque Torino”, esordisce Claudio Giunta, nato e cresciuto tra Mirafiori e Santa Rita, prima di diventare uno dei più importanti esperti italiani di Letteratura medievale. Intende, Giunta, che “la burocrazia sabauda, le tradizioni di buon governo e perfino una certa civiltà dei piemontesi sono incomparabili con quel che invece è Roma”. Ugo Nespolo, classe ’41, che a Torino vive e lavora ai suoi quadri e alle sue opere, in parte concorda. “E del resto anche la Raggi è la Raggi”, dice. Nel dirlo, l’artista sorride con l’aria di chi si trattiene dal fare una battuta che può scappare conveniente. Diciamo noi, allora, che paragonarsi alla Raggi, per Chiara Appendino, vuol dire voler vincere facile? “Ecco, diciamo così”.

 

E però proprio queste considerazioni, se da un lato sembrano nobilitare il sindaco di Torino, concedendole almeno il riconoscimento di un minimo di presentabilità, dall’altro impongono di essere perfino più severi, più rigorosi, nel giudicare l’operato della trentatreenne bocconiana che da oltre un anno e mezzo governa a Palazzo di Città. “Certo, a lei è impossibile accordare molti degli alibi che alla Raggi non possono essere negati, e dunque non si può essere indulgenti: il bilancio, ormai è evidente, è pessimo”, afferma Massimo Salvadori, storico delle dottrine politiche e professore emerito all’Università di Torino. Dalla sua casa, a due passi dalla stazione di Porta Nuova, osserva una città “amministrata male, malissimo”, e pur non ammettendolo un po’ si compiace di non aver ceduto alla tentazione, nell’estate del 2016, di lasciarsi ingannare dall’apparente ebbrezza della novità. “Lo pensavo già allora – dice – e ancor più lo penso adesso: quella del Movimento 5 stelle al governo è un’idea a cui guardare con terrore”. E quando gli si chiede se non abbia davvero mai pensato con curiosità alla prospettiva della democrazia diretta propagandata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, proprio lui che in uno dei suoi ultimi libri – “Democrazie senza democrazia” – aveva individuato nel restringimento delle élite al potere, nel loro essere sempre autoreferenziali, una delle cause della crisi dei regimi politici liberali dell’occidente, risponde con risolutezza: “Questa della democrazia dei Cinque stelle è una vera truffa. Il M5s è governato da una diarchia che sin dall’inizio ha menato per il naso i propri adepti lasciando loro solo l’illusione di contare qualcosa”. E questo, garantisce Salvadori, deputato del Pds al tramonto della Prima Repubblica, “era ben chiaro anche nel giugno del 2016”.

 

Non per tutti, evidentemente. Anche tra gli uomini di cultura, tra gli esponenti di quel “Sistema Torino” che in un modo o nell’altro tiene da sempre le vere redini della città, Appendino era sembrata un’alternativa credibile al vecchio sistema di potere del centrosinistra che da quasi un quarto di secolo – era il 1993, quando Valentino Castellani divenne sindaco per la prima volta – governava il capoluogo. La grillina dal volto rassicurante, la “secchiona” perfezionista. Questo era Chiara Appendino, nel racconto giornalistico di quel 2016: laureata col massimo dei voti in Economia, un avvio di carriera nei prestigiosi uffici della Juventus, figlia di quel Domenico Appendino per decenni dirigente e poi vicepresidente di Prima Industrie, leader internazionale nei macchinari laser – un potentato, in Piemonte e non solo. In parecchi, nella Torino che conta, avevano puntato su di lei. Perfino tra quelli che provenivano da mondi apparentemente lontani dal grillismo. Gente – tra i molti citabili – come Paolo Turati, economista e collezionista di arte, organico alla destra cittadina che fu lesto a votarsi alla causa Appendino giusto in tempo per la campagna elettorale, e ora è stato giustamente ricompensato – nonostante i suoi post xenofobi contro gli immigrati africani da “scacciare manu militari” – con una candidatura sull’uninominale della Camera in centro città. E nella sfilata di chi si riposizionò con tempismo perfetto, o insomma si lasciò convincere dalla pentastellata borghese, furono molti anche gli uomini della cultura, a figurare. “Diciamo pure – precisa Nespolo, che da ex presidente del Museo del Cinema quegli ambienti li conosce bene – che tanti in quei circoli pensarono di poter usare la vittoria della Appendino per restare in sella, o magari per guadagnare delle rendite di posizione. In ogni caso, sempre con la certezza, o l’illusione, di poter poi comunque controllare la futura sindaca”. Chissà se furono esattamente questi i propositi che spinsero anche Maurizio Cibrario a entrare nell’orbita grillina. Grande uomo d’azienda, per anni ai vertici della Martini & Rossi, quando viene nominato alla presidenza della Fondazione Torino Musei, nel dicembre 2016, in tanti vociferano sulla sua opportunistica conversione al credo pentastellato. Presto però deve ricredersi su Appendino e la sua giunta. Bastano quattro mesi perché l’idillio s’infranga; succede quando il Comune impone una sforbiciata di 1,3 milioni al bilancio della Fondazione, e allora Cibrario sbotta: “Non si può tagliare sull’unico settore ancora produttivo della città. Lo dico da manager: sarebbe come buttare al vento vent’anni di storia”. Allarme rimasto inascoltato, dato che a ritirare quella decurtazione Appendino non ci ha pensato neppure quando si è vista costretta ad annunciare il licenziamento di 28 dipendenti dei vari musei – lasciando poi che fosse la Regione, l’odiata Regione a guida Pd, a metterci una pezza.

 

Grane economiche, giudiziarie e politiche le hanno fatto rimandare molte decisioni. I quartieri che la votarono ora la contestano

Ma non tutti, comunque, scommisero su Appendino per più o meno dichiarati interessi personali. Piera Levi-Montalcini, nipote del premio Nobel, nonostante il suo tradizionale impegno del campo del centrosinistra cittadino, ammette di non avere assistito affatto alla vittoria dei grillini con l’animo di chi vedeva arrivare i barbari. “Un cambiamento mi sembrò perfino salutare”, racconta l’imprenditrice discendete della storica famiglia torinese. E però? “E però c’è una questione ineludibile: senza competenza, senza professionalità, non si va da nessuna parte. E’ inutile pensare di poter governare una grande città se non si ha al proprio fianco una squadra adeguata”. Ecco, la squadra. “Non proprio una macchina da guerra”, scherza Salvadori. In principio fu Paolo Giordana, il “rasputin” di Chiara, l’ex seminarista con un passato lontano da collaboratore di Alleanza Nazionale e uno assai più recente di staffista del Pd torinese, manovratore neppure tanto discreto della macchina comunale nel primo anno dell’èra grillina: mal sopportato dalla base e dai vertici del M5s, finì sul banco degli imputati per i tragici fatti di piazza San Carlo, un morto e 1.500 feriti per un falso allarme bomba durante la proiezione della finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid il 3 giugno dell’anno scorso, e alla fine fu costretto alle dimissioni dopo l’imbarazzante intercettazione in cui lo si ascoltava brigare col presidente di Gtt, l’azienda dei trasporti pubblici, per far togliere una multa a un suo caro amico. Poi s’è guadagnato spazio Luca Pasquaretta, finito nelle scorse settimane tra gli indagati per un evento secondario in quella stessa notte fatale. Ma forse non meriterebbe parlare del capoufficio stampa della sindaca, se davvero solo questo Pasquaretta fosse: un semplice portavoce. E invece il 41enne lucano di Forenza è diventato, dopo l’allontanamento – più lento e più graduale, molto più graduale, di quanto si sia raccontato – di Giordana, il vero uomo-ombra della prima cittadina: sempre al suo fianco, sempre a tenere la sua Chiara al riparo dalle insidie degli odiati cronisti. “Il mio pit-bull”, lo chiama affettuosamente la Appendino, che non sembra evidentemente curarsi del fatto che Pasquaretta sia solito inveire a telefono, con insulti e minacce, contro i giornalisti che non scrivono secondo il suo piacimento o contro i vertici di associazioni ed enti torinesi che rilasciano interviste poco lusinghiere per la sindaca. Ma neppure con consiglieri e assessori è granché urbano, Pasquaretta: difficile trovarli disposti a parlare con la stampa “senza l’autorizzazione di Luca”. Alla corte di Appendino, l’ex giornalista sportivo di Messaggero e Secolo XIX arrivato a Torino per l’università, è approdato all’improvviso, quasi agli sgoccioli della campagna elettorale del 2016, dopo trascorsi come pierre per locali notturni e addetto stampa della fiera “Torino Erotica”. Ad avvicinarlo all’allora candidata sindaco fu Alberto Sacco, avvocato conosciuto in città soprattutto per il suo ruolo di promotore di party in discoteca, socio di Pasquaretta in alcune società che organizzavano feste e festini, e per questi evidenti meriti maturati sul campo immediatamente promosso assessore al Commercio.

 

Poi c’è il vicesindaco, Guido Montanari, titolare della delega all’Urbanistica, famoso come “il signor No” in quanto esponente di rilievo di vari comitati ambientalisti torinesi: coccolato da alcuni settori antagonisti della città, sostenitore e spesso fomentatore, più o meno direttamente, dell’ala oltranzista del M5s in Sala Rossa, era arrivato con l’intenzione di bloccare la proliferazione dei grandi centri commerciali, salvo poi ricredersi sul valore degli ipermercati (“Possono servire a riqualificare zone degradate della città”) di fronte alle esigenze di cassa del Comune.

 

Nel 2016 molti esponenti del “Sistema Torino” si riposizionano per non perdere potere, rassicurati dall’immagine “secchiona” di Chiara

A vederla così, “non sorprende che la città si stia ripiegando su stessa”, afferma Salvadori. Claudio Giunta, che pur insegnando all’Università di Trento, a Torino torna non di rado, precisa: “C’è una situazione molto statica. Un mix di paura e inesperienza si traduce, com’è naturale, in immobilismo. E’ una città che luccica, ma senza basi economiche”. Non che queste basi le abbia distrutte la giunta Appendino, ovvio. I problemi, dal punto di vista finanziario, Torino se li trascina da anni. “Quello che però si è interrotto – spiega Nespolo – è quel moto di riconversione avviato in città dal centrosinistra, pur tra mille contraddizioni, dopo la fine dell’era Fiat. Quella trasformazione da città fordista a metropoli moderna, in grado di mostrarsi al mondo ospitale e moderna grazie alle Olimpiadi del 2006, ma anche grazie a un eccellente polo universitario e alla scommessa su cultura e turismo lanciata da Chiamparino e Fassino, si è inceppata”. Prosegue l’artista e intellettuale: “Essere oculati, quando si ereditano dei conti comunali abbastanza disastrati, è un merito. Ma la giunta Appendino unisce al rigore di bilancio una fastidiosa forma di moralismo, che trasforma la morigeratezza in micragnosità. E questo non è un bene, per una città che ha bisogno di prospettive”.

 

Del resto, le priorità dell’amministrazione sono altre. Tipo la qualità dell’aria, che in verità sembra diventata ormai un’ossessione dell’assessore all’Ambiente Alberto Unia – sempre più l’uomo forte, anche in virtù della sua vicinanza alla deputata Laura Castelli, della giunta. Solo così si spiegano i continui blocchi del traffico per le vie del centro, revocati e confermati da un giorno all’altro, spesso perfino nell’arco di poche ore, in una tarantella di divieti che finisce per estenuare cittadini e commercianti anche nei giorni di maggiore affluenza, persino nei giorni delle feste natalizie. Non a caso nel dicembre scorso il presidente di Confesercenti, Giancarlo Banchieri, di fronte all’annuncio di un piano di estensione della Ztl che avrebbe ulteriormente ostacolo l’accesso nelle vie principali della città, ha parlato di una “amministrazione fatta di apprendisti stregoni e dilettanti allo sbaraglio che rischiano di far morire il centro”.

 

Ma è non solo nelle strade glitterate dello shopping che si respira insofferenza. Sulle periferie la Appendino ha costruito molto del suo consenso elettorale. Lo ha fatto, ricorda Nespolo, “grazie allo sdoganamento di una ideologia d’accatto sulla valorizzazione delle zone degradate che però era pura retorica”. E che si sta rivelando, puntualmente, in tutta la sua cialtronesca inconsistenza. Così tra i principali contestatori della sindaca, in queste settimane, non ci sono solo i commercianti e gli esponenti della Torino bene, ma in primo luogo gli animatori del Comitato popolare Vallette-Lucento, che si battono contro l’emergenza abitativa nel quartiere popolare a nord-ovest della città e che votarono in massa per la Appendino, anche grazie alla vicinanza con Deborah Montalbano, una dei consiglieri comunali più integralisti, “la rompicoglioni” del gruppo, sempre più in rotta di collisione con la giunta. “Sulle periferie – dice Giunta al Foglio – è stata fatta una campagna di promesse fondate sul nulla. Che hanno creato aspettative alte, inevitabilmente frustrate, e dunque rabbia”. Ed ecco che i componenti del Comitato hanno inaugurato il “Bacio di Giuda tour”: lo hanno fatto dopo che la sindaca, a fine ottobre, s’era impegnata a convocare un tavolo sulle urgenze del quartiere, sancendo quella promessa con un bacio sulla guancia a uno degli attivisti. Dopo aver atteso invano, ora gli abitanti delle Vallette si sono lanciati in un inseguimento incessante nei confronti di Appendino, tallonata e contestata a suon di fischi e insulti in ogni evento a cui presenzia. L’ultima volta è accaduto al Circolo dei Lettori, il 31 gennaio scorso.

 

Giunta: “Un mix di paura e inesperienza si traduce in immobilismo. E’ una città che luccica, ma senza basi economiche”

Appendino teme simili contestazioni. Le teme e le soffre. E anche per questo ha annunciato, salvo poi sporadici ripensamenti, una sospensione degli incontri pubblici fino al voto del 4 marzo. Ma il disimpegno della sindaca, in vista delle politiche, è ancora maggiore. “Teniamo fuori Torino da questa campagna elettorale”, ha scandito a fine anno la prima cittadina. “Il che – evidenzia Massimo Salvadori – non è un gesto di responsabilità, come si è detto, ma un segno di debolezza. Indica la consapevolezza dei propri errori, e il tentativo di non esporli alla ribalta mediatica”.

 

Le grane, d’altronde, per la Appendino sono parecchie. Quelle giudiziarie, innanzitutto, con le indagini che la riguardano per i fatti di piazza San Carlo e per il presunto falso in atto pubblico in relazione al bilancio 2016. C’è la questione Gtt, l’azienda dei trasporti pubblici che attende di attuare un piano industriale su cui grava ancora parecchia incertezza, e che è stato approvato dopo mesi di estenuanti trattative, ambiguità, riunioni di maggioranza a Palazzo di Città dalle quali la sindaca si è alzata in lacrime perché messa sotto pressione dal suo stesso gruppo. Di natura contabile è anche l’altra grossa incognita, quella relativa al bilancio di previsione per il 2018. La Raggi, che pure è la Raggi, lo ha visto passare in aula Giulio Cesare prima di Natale; la Appendino è ormai rassegnata a non rispettare la scadenza, fissata dalla legge nazionale, del 28 febbraio, e si ritrova a dover gestire anche il malcontento di un manipolo di suoi consiglieri, che proprio sulla finanziaria comunale si mostra tutt’altro che disposto a seguire le direttive della giunta.

 

E qui si arriva ai problemi politici. Le tensioni interne ai grillini in Sala Rossa s’inaspriscono di settimana in settimana: se da un lato c’è un gruppo di movimentisti radicali, che contestano alla sindaca lo snaturamento del programma delle origini, dall’altro cresce, quasi per reazione, la fronda dei pragmatici che, come ha scritto pubblicamente il conigliere Marco Chessa, chiedono alla giunta “un cambio di passo” e pretendono che la si smetta una buona volta col nascondersi “dietro l’alibi della gestione di chi ci ha preceduto”. Poi, le discutibili scelte sulle candidature per il 4 marzo, l’esclusione imposta da Luigi Di Maio di un attivista di lungo corso – Mario Corfiati – a causa di alcune sue foto ritrovate su dei siti d’incontri, l’investitura di persone che poco sembrano avere a che fare col Movimento: anche questo ha provocato malumori.

 

Ad aumentare le fibrillazioni della maggioranza è tornato infine il dossier sulla candidatura olimpica di Torino ai Giochi invernali del 2026. A una parte della giunta – l’assessore allo Sport Roberto Finardi, in primis – l’idea piace. E piace anche ai sindaci delle valli alpine, alcuni dei quali sono grillini. Appendino per ora non si pronuncia, aspetta che gli eventi maturino sperando che non la travolgano, rimandando tutto a dopo le elezioni. A cui i pentastellati, in ogni caso, guardano con una certa fiducia. Nelle sfide sugli uninominali non c’è grande speranza: né in città e neppure in Valsusa, storico serbatoio di voti No-Tav. Ma nel complesso, il M5s, a Torino, ha buone possibilità di confermarsi il primo partito, nonostante l’avanzata della destra, o quantomeno di non sfigurare, anche grazie all’erosione da sinistra di Liberi e uguali ai danni del Pd. Di fronte a queste previsioni, Nespolo si stringe nelle spalle: “Evidentemente è ancora presto perché chi ha appoggiato la Appendino, nei palazzi importanti della città, la scarichi. E anzi, con l’aria che tira a livello nazionale, l’opportunismo suggerisce di attendere. Lo avete visto, no, cos’ha detto Luca Ricolfi?”. Ha detto, Ricolfi, che “la borghesia italiana non ha mai avuto e non ha in mente gli interessi del paese, ma i propri. Per questo pur potendo vedere benissimo il rischio di cosa può significare una vittoria dei Cinque stelle, di fronte all’altro rischio di trovarsi spiazzata ed esclusa, giudica più grave quest’ultimo e quindi si protegge”. Lo ha detto a un giornale locale, e la cosa ha fatto parecchio discutere. Nel pronunciare le sue parole, Ricolfi è stato attento a non riferirsi mai direttamente alla città di Torino, di cui del resto, ci confessa, non segue molto le vicende “per questioni di tempo e di impegni”. Ma quando gli chiediamo se anche per Torino, e soprattutto per Torino, sia valido questo discorso; e se anche a questo atteggiamento della borghesia sabauda si debba il persistere una certa benevolenza verso il M5s, Ricolfi risponde laconico, con una doppia negazione che in definitiva conferma: “Non vedo perché non dovrebbe essere così”.