Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Grillini a Londra. Il piano di Di Maio (?) per le larghe intese con Pd e Forza Italia

Cristina Marconi

Un giorno con il candidato premier del M5s che, “privatamente”, incontra gli investitori internazionali e smentisce le indiscrezioni: “Mai parlato di inciuci”  

Londra. Grande finanza? “Ma perché è in città? E che ci è venuto a fare?”. Dalla City cadono dalla sedia, le istituzioni non sanno niente dell’arrivo a Londra di Luigi Di Maio, candidato premier del Movimento 5 Stelle. Non sanno niente quelle italiane, non sanno niente quelle britanniche. Investitori internazionali? “Lo saprei di sicuro, qui non c’è nulla”, garantisce uno che effettivamente è sempre dappertutto. Visita ufficiale non è, visto che non è passato attraverso l’ambasciata e che le banche italiane non hanno organizzato nulla. “Nebbia fittissima”, suggerisce qualcuno. “Venti chiamate e tra i miei contatti non ho trovato una persona che ci sia andata”, sospira un altro. Lo slancio gruppettaro di un incontro con la base si è affievolito e pure loro, i ferventi grillini d’Albione (ma si potrà ancora dire?), sono presi totalmente alla sprovvista: visita privata.

 

Ma come privata, sono giorni che Luigi Di Maio dice che andrà a Londra per incontrare “gli investitori internazionali, che chiedono meno burocrazia e più certezza del diritto”, e la mente già corre a immaginarlo che arringa una distinta compagnia di completi di Savile Row e accenti altolocati mentre sullo sfondo scorrono certe slides di un futuro che non vi dico.

 

Ed è successo, solo che non nella City, ma nella Mayfair gentilizia e ovattata dei fondi d’investimento, con una serie di incontri organizzati dalla Policy Sonar di Francesco Galietti, una società di consulenza di Roma a cui erano, pare, arrivate molte richieste di parlare con questo oggetto non identificato della scena italiana, ennesimo prodotto politico potenzialmente votato all’export di un paese talmente in confusione da non fare quasi più notizia. Incontri privati nella mattina, già dalle sette e mezzo, un’ora a parlare di come vede le tendenze in atto in Italia in petit comité – Giggino, il professor Fioramonti e due o tre persone per fondo, e si parla di grandi gestori americani, svizzeri, francesi, di alcuni hedge funds, si fanno i nomi di Pimco e del fondo pensione Fidelity, ma di quelli che si occupano di Italia non si sa nulla – e da mezzogiorno e mezzo con venti persone, magari un po’ junior ma comunque tante, venute ad assistere alla conversione dei Cinque Stelle a partito moderato, sì, proprio moderato, che non pensa ad alleanze solo con Salvini o Grasso ma guarda oltre, magari anche a un Pd derenzizzato, a una pluralità di partner che possa valorizzare il suo 30 per cento che si sente già un po’ 35.

 

Parlando agli investitori – ha riportato la Reuters, con parole confermate anche al Foglio da una fonte presente all’incontro – Di Maio ha detto che il suo partito sarebbe disponibile ad un governo di larghe intese con Pd, Forza Italia e Lega nel caso in cui dalle urne non uscisse un risultato chiaro. “Se non raggiungiamo da soli la maggioranza lanceremo un appello pubblico”, spiega Di Maio in un albergo scintillante ma non scintillantissimo di Knightsbrodge. Versione confermata anche più tardi in un post su Facebook.

  

  

Chi investe in titoli di stato, chi in bond di società italiane, chi in altri settori dell’economia sarebbe rimasto soddisfatto, dicono, dalla presa di distanza dai no euro di una formazione che si è fatta agnellino agnostico per non spaventare nessuno. “Tutti quelli che abbiamo incontrato hanno in comune il fatto di non essere contenti dello status quo in Italia”, spiega il professor Lorenzo Fioramonti, cattedra a Pretoria, tessitore di trame di questa visita londinese. Con il Financial Times che attraverso i ragionamenti squadrati di Munchau dice che in fondo non sono neanche peggio degli altri – sono le riforme che mancano a questa campagna elettorale, da tutte le parti, altro che minaccia Cinque Stelle – e che qualche mese fa recensiva neanche troppo male il libro sulla morte del pil di Fioramonti, ci si poteva aspettare che un po’ di richiamo ce l’avesse, oltre a fornire il prestigioso sfondo di Big Ben e notte lucida di pioggia che impreziosiva la sua intervista a Floris a Dimartedì, quella in cui spiegava di voler presentare un messaggio “in un certo senso moderato”, in cui l’acredine antieuro si è trasformata in un sommesso dissenso - “lo dicono tutti che questa Europa va cambiata”, pure Macron, la Merkel e Rajoy, novelli compagni di lotta e, spera lui, di governo. “Noi non siamo populisti, abbiamo un programma chiaro e la volontà di andare al governo per cambiare l’Italia”, spiega Di Maio, felice degli “ottimi feedback” avuti su programma e lista di candidati. “Tanto è difficile fare una squadra senza di noi”, gongola.

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