Il presidente dell'Upi, Achille Variati, e il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Così le Province italiane si preparano a rinascere

Paolo Emilio Russo

Fino al referendum del 4 dicembre erano enti inutili da cancellare. Dopo la vittoria del No il governo è stato costretto a cambiare linea. Il presidente dell'Upi Variati (Pd), ci spiega cosa succederà nei prossimi mesi

È da poco passato Natale, eppure, all’Upi (Unione delle province italiane), è come se fosse passata la Pasqua. “Forse è finito il calvario, durato tre anni”. Quello a cui fa riferimento Achille Variati, classe 1953, sindaco di Vicenza dal 2008, presidente dell’omonima Provincia dal 2014 e dell’Unione dal 2015, dem di derivazione Margherita, è alla “incredibile campagna diffamatoria condotta contro le Province, additate come il peggio del peggio per anni”, conclusasi di fatto ora, un anno e mezzo dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.

 

“Dopo quel risultato, il governo non poteva più ignorare la situazione nella quale versano le Province. Il tema della loro abrogazione mi sembra superato, resta certamente quello di modificarne la governance e penso che dovrà occuparsene il nuovo Parlamento”, spiega a Il Foglio il numero uno dell’Upi, che ha guidato il manipolo di presidenti delle Province che, un anno e mezzo fa, ha condotto una resistenza solitaria quanto eroica contro lo scioglimento dei loro enti.

 

Con un pacchetto di emendamenti alla Legge di Bilancio appena approvata, il governo ha restituito agli organismi che prima Mario Monti e poi Matteo Renzi avevano dato per “aboliti” e che sono stati trasformati in “enti di secondo livello” da Graziano Delrio, quanto avevano prima del 2014, cioè le risorse minime per tornare a lavorare. “Ci rimettiamo in moto; mi sembra chiusa la stagione folle nella quale ogni taglio veniva salutato con un brindisi, dove, come accade nella savana, vige la legge del più forte, in questo caso l’istituzione più forte che se la prende col più debole”, dice.

 

Prima della riforma costituzionale, a “staccare la spina” era stata la Legge di Stabilità del 2015 che prelevava tre miliardi di euro dalle casse delle Province e le lasciava, come spiega il presidente, “prive delle risorse minime necessarie per occuparsi di cose necessarie come la manutenzione delle strade, degli istituti scolastici, di ambiente…”. In questi anni di risorse zero ben tre Province (Biella, Caserta e Vibo) sono fallite, quattordici erano sul punto di portare i libri in tribunale, altre sono riuscite a sopravvivere a stento, col risultato che, come elenca il sindaco-presidente, “4000 km di strade provinciali sono chiuse; il 45% dei 130 mila chilometri di strade provinciali in Italia sono aperte ma non hanno subito manutenzioni e quindi presentano problemi gravi; moltissime delle 5100 scuole sono rimaste prive dei certificati per la prevenzione degli incendi”.

 

Qualcosa andava pur fatto. “Chi ha salvato le Province dall’abrogazione? Beh, l’esito del referendum sicuramente”, ammette.
La manovra predisposta dal governo di Paolo Gentiloni ha “restituito” alle Province 717 milioni di euro all’anno fino al 2020 per la spesa corrente, destinati alla manutenzione ordinaria di strade e simili, 1 miliardo e 620 milioni da qui al 2023 per un piano di manutenzioni straordinarie e la possibilità di tornare ad assumere dipendenti a tempo indeterminato. È la restaurazione? “Macché: negli anni scorsi i nostri enti sono stati costretti a diminuire del 50% il personale, ci sono uffici tecnici composti da un solo tecnico e quindi non in grado di lavorare… Le spese per il personale non possono comunque mai superare il 20% dei bilanci. Se i ministeri avessero le stesse regole e si fossero efficientati come le Province, sa che risparmi per lo Stato?”, puntualizza.

 

Di questo periodo “complicatissimo”, Variati salva una cosa, che qualcuno potrebbe scambiare per l’auspicio di una grossa coalizione in Parlamento, anche se lui nega: “Nelle Province in questi anni i bilanci e la quasi totalità dei provvedimenti sono stati approvati frequentemente con maggioranze bulgare nei Consigli, col 70 o l’80% dei voti; non importa se sei del Pd, di Forza Italia o della Lega, se devi sistemare una strada, se devi risolvere un problema concreto. Questa esperienza, secondo me, è stata positiva”.

 

La restituzione della capacità di funzionamento e di spesa ad enti che sono sempre previsti nella Costituzione italiana non risolve definitivamente la questione aperta nell’ultimo decennio - il primo a sollevarla fu Silvio Berlusconi - di come razionalizzare le funzioni degli enti locali dei diversi livelli. “La riforma costituzionale abrogava le Province, ma creava un organismo - l’ “area vasta”, che avrebbe dovuto gestire il coordinamento delle politiche di un territorio. Bocciata quella riforma, il prossimo Parlamento avrà di fronte due strade”. La prima è quella di mantenere in vita il sistema attuale, che prevede che il presidente della Provincia sia nominato dagli altri sindaci e dagli amministratori locali, creando quella che Variati definisce “la casa dei Comuni, dove è necessario lavorare insieme”, e che indichi un “sindaco del territorio”, sul modello di quanto accade nelle Città Metropolitane. La seconda via è quella di “cancellare l’elezione indiretta, tornando al voto dei cittadini per il presidente e per i consiglieri”. Il presidente dell’Upi non si sbilancia su nessun modello. Una cosa, però, colpisce. In un momento nel quale chi può se la prende con Matteo Renzi e lo sport nazionale è accusare il segretario Pd di qualcosa, il sindaco-presidente dem che ha fatto campagna per il no va in controtendenza. “Io a Renzi gliel’ho detto subito, all’inizio, che quei tagli non erano sostenibili, che avrebbero contratto i diritti dei cittadini, che stavano ragionando su un’idea sbagliata. Le Province non costano allo Stato, si finanziavano con alcune tasse locali, come quella sulle Rc Auto o i passaggi di proprietà. Evidentemente non mi ha ascoltato. Detto ciò, non penso che sulla sopravvivenza delle Province si sia giocata una guerra interna al Pd, che poi è il mio partito. La maggioranza del Pd aveva lanciato una sfida al Paese ed era una sfida della semplificazione: quella sfida non è andata. Il Pd ha perduto una battaglia, ma ce ne saranno altre”.