Io, Salvini, il Cav. e Renzi. Il gran manifesto anti populista di Maroni

Claudio Cerasa

“Sono leninista ma la Lega mi ha trattato con metodi staliniani. La mia vita nuova nasce anche da incompatibilità con Salvini. Il futuro? Io tra i giovani, il paese torna al 1994. Il Jobs Act? Meno propaganda, pensiamo a Biagi”. Intervista a Roberto Maroni

"Sorrido, ma certo che sono dispiaciuto”. Roberto Maroni è da poco tornato a Milano, ha appena ricevuto la notizia della conferma della candidatura di Attilio Fontana alla regione Lombardia, ha letto un po’ di agenzie, ha sfogliato qualche giornale, ha curiosato tra i retroscena e alla fine della mattinata, senza polemiche ma senza sottrarsi alle domande, decide di mettere in fila un po’ di ragionamenti e di parlarne con il Foglio. “Sorrido, ma certo che sono dispiaciuto”. Dispiaciuto di cosa? “Delle dichiarazioni del mio segretario”. Di Matteo Salvini? “Di Matteo Salvini”. Dispiaciuto per cosa? “Per le dichiarazioni sprezzanti e sorprendenti che ho sentito nei miei confronti. In tanti si affannano a dire che io non sarò ministro, ma chi è che vuole fare il ministro? Sono anni che faccio politica, credo anche a un buon livello, e so che la riconoscenza non è necessariamente un ingrediente della vita di un partito. Non pretendevo di sentirmi dire che sono stato un bravo governatore, oltre che un bravo ministro, pretendevo che il segretario del mio partito non utilizzasse la mia scelta di vita per cercare di colpirmi. Di fatto, invece, mi sembra stia avvenendo questo. Il segretario del mio partito tende a osservare la realtà con un filtro che gli viene offerto dalle persone che lo circondano e queste persone quando gli presentano un problema non offrono sfumature ma tagliano tutto con l’accetta. Anche ai tempi di Umberto Bossi, quando la politica aveva la P maiuscola e non la p minuscola, quando fare politica significava voler fare la rivoluzione e non preoccuparsi solo di avere un posto in più nel Parlamento romano, ricordo che i problemi non mancavano ma che il segretario di quel partito, che era un partito diverso dalla Lega di oggi, perché la Lega di oggi da quando non ha più la parola Nord è una Lega diversa, che non so che successo potrà avere, cercava un modo per trovare una sintesi. Riceveva le notizie dalle persone a lui vicine ma poi interveniva, chiamava alle tre di notte, non si basava sul sentito dire, voleva sentirsele dire le cose”. Oggi, dice Maroni, tutto questo non è successo e a tre giorni dalla sua decisione clamorosa ma dice lui non improvvisa di non ricandidarsi alle regionali in Lombardia – “Salvini sapeva tutto da mesi, è stato il primo a saperlo, il secondo è stato Berlusconi, ed è stato Salvini a concordare con me le tempistiche dell’annuncio, io sono un leninista convinto, uno che crede nella leadership, ma non avrei mai pensato di ritrovarmi di fronte un leader stalinista” – oggi la situazione è quella che è: “Sono contento, molto contento, che una persona brava, preparata e competente come Fontana sia il candidato unitario del centrodestra ma ora che mi trovo in una posizione più defilata, mi verrebbe da dire fuori dalla politica, devo anche riconoscere che in questi giorni sono stato massacrato dai miei compagni di squadra, che hanno scelto di dare alla mia vita nuova un’interpretazione del tutto arbitraria, mentre sono stato ricoperto di affetto e amicizia da un mondo politico lontano da me, e questo mi ha colpito”. L’sms di Matteo Renzi, e poi? “Tanti altri. Ma una telefonata mi ha fatto particolarmente piacere: quella di Giorgio Napolitano. Siamo stati quindici minuti al telefono, con simpatia e affetto, ha riconosciuto che la mia è stata una scelta coraggiosa, e lo ringrazio, ha detto che noi del 1955 siamo fatti così, vale per me e vale per Veltroni, e che a un certo punto abbiamo bisogno di prendere aria e di pensare alla nostra vita”.

 

La vita nuova, dice Maroni. E noi proviamo a notare con malizia: ma come può esserci una vita lontana dalla politica per un politico che ha fatto il segretario della Lega, il ministro dell’Interno per due volte, il ministro del Lavoro per due volte, il vicepremier, il governatore della Lombardia? Come fa, diciamo a Maroni, un candidato premier fragile come Matteo Salvini, che essendo un candidato premier figlio del proporzionale sa perfettamente di essere in un contesto in cui a Palazzo Chigi ci finirà un uomo di mediazione e non di rottura, come fa un Salvini a non sospettare che il passo indietro di Maroni sia in realtà un passo in avanti per candidarsi come prossimo presidente del Consiglio? Non pensa che sia questo il ragionamento che ha portato Salvini a linciarla mediaticamente? “Credo di sì. Credo che il ragionamento, sbagliato, sia più o meno questo. Ma io sono una persona leale. Sosterrò il segretario del mio partito. Lo sosterrò come candidato premier. Ma da leninista, come le dicevo, non posso sopportare di essere trattato con metodi stalinisti e di diventare un bersaglio mediatico solo perché a detta di qualcuno potrei essere un rischio. Consiglierei al mio segretario non solo di ricordare che fine ha fatto Stalin e che fine ha fatto Lenin ma anche di rileggersi un vecchio testo di Lenin. Ricordate? L’estremismo è la malattia infantile del comunismo. Se solo volessimo aggiornarlo ai nostri giorni dovremmo dire che l’estremismo è la malattia infantile della politica”.

 

E ora che Maroni è fuori dalla regione? E soprattutto, perché ha scelto questo passo di lato? Maroni racconta i progetti che ha in mente per il suo futuro e dalla loro descrizione, dalle traiettorie, è possibile capire qualcosa che il governatore uscente della Lombardia non ha ancora messo a verbale: perché ha mollato. “Cosa farò oggi? Vorrei seguire due mie passioni. La mia passione civile da avvocato penalista e la mia passione umana da amante delle imprese giovanili”. In che senso? “Mi piacerebbe mettere a disposizione dei giovani, dei millennial, ma non solo, la mia competenza nel mondo della pubblica amministrazione per poter far nascere società innovative, per coltivare dei sogni. Mi piacerebbe fare questo. E poi mi piacerebbe tornare a fare l’avvocato, di occuparmi dell’impatto che ha il diritto penale nella pubblica amministrazione, di dare una mano, per esempio, agli amministratori vittime della cattiva giustizia”. Pausa. Riprende. “Penso per esempio al mio amico Giuseppe Orsi, ex presidente di Finmeccanica, massacrato per cinque anni da un processo mediatico senza sosta, che gli ha tolto un pezzo di vita, che gli ha tolto il suo lavoro, che gli ha distrutto la sua carriera, che oggi, come era prevedibile, è stato assolto. Penso a lui ma penso anche a un’altra persona che stimo e che per ragioni diverse ha subìto un’inaccettabile aggressione mediatica: il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi”.

 

“Siamo di partiti diversi – prosegue Maroni – Mattia Palazzi è del Pd, ma quando è finito sotto il linciaggio degli avversari l’ho chiamato e gli ho detto di essere a sua disposizione come avvocato. Era fine novembre. Più o meno in quei giorni ho comunicato al segretario del mio partito la mia volontà a non ricandidarmi”.

 

Possiamo dire, presidente, che fra i tratti di incompatibilità culturale tra lei e il suo segretario, e forse fra i tratti di incompatibilità politica, vi è anche un’idea diversa del rapporto che deve avere la politica con la giustizia? “Possiamo dirlo. E’ così. E’ questo uno dei tanti motivi che mi hanno spinto a ragionare su un futuro diverso, lontano da un modo di fare politica che capisco ma che, le dico la verità, proprio non mi appartiene. Non più”. Il passo di lato dalla regione Lombardia permette a Maroni di ragionare sulla campagna elettorale con un distacco impensabile per un uomo impegnato in campagna elettorale e l’occasione è dunque ghiotta per provare a ragionare su altri temi. Europa, populismo, lavoro, avversari, futuro del governo. Sul primo tema la prima domanda è semplice: Maroni vuole l’euro sì o no? Risposta secca, senza virgole, senza subordinate: “Sì, lo voglio”. Non ci accontentiamo però e proviamo a provocare l’ex ministro ragionando sull’Europa da un punto di osservazione spericolato ma decisivo: la Francia. La campagna presidenziale francese, come si sa, ha avuto l’effetto di mettere a confronto tra loro due modi diversi di intendere l’Europa e in Emmanuel Macron e Marine Le Pen sono state raffigurate in modo plastico due visioni politiche chiare: una europeista forte, solida, decisa, alternativa al protezionismo e al nazionalismo, e una anti europeista netta, a vocazione sovranista. Chiediamo dunque a Maroni di accettare di giocare con noi: chi avrebbe votato tra Macron e Le Pen, se Maroni fosse stato un cittadino francese? Maroni non si sottrae: “Ho grande stima di entrambi. Ho conosciuto personalmente Le Pen, non ho avuto la fortuna di conoscere Macron, ma se fossi stato un cittadino francese avrei fatto la stessa scelta che ha fatto la maggioranza dei francesi e avrei votato Macron”. Macron? “Macron, certo, è sorpreso?”. Le Pen è stato il simbolo del suo partito fino a qualche mese fa, certo. “Non vedo nessuna contraddizione. Non avrei votato Le Pen non perché, come sostiene stupidamente qualcuno, il lepenismo è nazismo, ma perché il lepenismo è simbolo di tutto quello che non serve all’Europa: uno sterile e improduttivo nazionalismo, un ritorno agli stati, un ritorno a Napoleone, se mi concedete una battuta. L’Europa del futuro deve essere l’Europa dei popoli. Non so dire ancora se Macron è in grado di rappresentare quell’Europa ma so dire che nella visione di Macron esiste un’idea di valorizzare l’Europa delle regioni e tanto mi basta per dire no a ogni forma sciatta di nazionalismo. Per la Lega aveva un senso stare tatticamente con la Le Pen, non ci piove. Ma strategicamente no. E quando si parla di strategia bisogna guardare al cuore dei problemi: il lepenismo è morto e sepolto e chi non lo capisce è destinato inevitabilmente a fare una brutta fine”.

 

Tattica e strategia

 

La sfumatura tra una politica che si occupa solo di tattica e una che si occupa di strategia merita un approfondimento. “Guardi, è semplice. Ai tempi della Lega di Bossi io mi occupavo di tattica, Bossi di strategia. Occuparsi solo di tattica significa però scegliere di non avere futuro. Significa occuparsi solo di marketing. Significa occuparsi solo di trovare un modo per finire sui giornali e non per dare una direzione al paese. La Lega di oggi mi sembra ricca di tattica, povera di strategia. Eppure, anche quando si parla di Europa, le cose da dire ci sarebbero”. Il referendum? “Penso all’Ema. Al disastro dell’Ema”. Da che punto di vista? “Ema è stata una prova di incapacità del nostro paese a declinare il soft power. Le faccio un piccolissimo esempio. L’Italia si è limitata a rispettare le procedure, è rimasta nei vincoli della burocrazia e nella giornata finale ha mandato a vigilare il sottosegretario Gozi, che ha seguito tutta la pratica Ema. Chi non ha seguito la pratica non poteva essere presente. L’Olanda ha scelto di fare una forzatura e alla giornata finale, durante l’assegnazione, ha mandato anche il suo ministro degli Esteri. Per trattare. Per far pesare la diplomazia del paese. L’Italia ha perso, l’Olanda ha vinto. E purtroppo, da questo punto di vista, paghiamo l’inesperienza. Abbiamo pochi uomini e donne che conoscono l’Europa e pochi uomini e donne che conoscono la struttura dell’Europa. Se penso che l’Italia in Europa è rappresentata ai suoi massimi vertici da Federica Mogherini, con rispetto mi scappa un po’ da sorridere”. E poi, Europa a parte, ci sono le prossime elezioni, c’è la campagna elettorale e c’è un tema su tutti: il lavoro. Silvio Berlusconi, salvo poi correggersi, ieri mattina a una trasmissione radiofonica ha detto di essere pronto, nella prossima legislatura, ad abolire il Jobs Act, e se pensi a cosa ha significato il Jobs Act, se pensi al principio di sana flessibilità introdotto dalla riforma voluta da Renzi, in un certo senso non puoi non pensare anche a Roberto Maroni, che nel 2003, quando era ministro del Welfare del governo Berlusconi, firmò una delle più importanti leggi sul Lavoro della Seconda Repubblica, quella che porta il nome di Marco Biagi. E da qui ripartiamo con Maroni: abolire il Jobs Act, ma davvero Maroni? “A volte”, dice l’ex ministro con un sorriso, “quando sento parlare di lavoro in campagna elettorale mi verrebbe voglia di propormi come consulente gratuito in materia di mercato del lavoro”. Poi Maroni si fa più serio. “Io penso che la riforma del lavoro migliore che la politica dovrebbe portare avanti è quella di migliorare la flessibilità prevista dal Jobs Act con alcuni correttivi che erano già contenuti nella legge Biagi, che conteneva un giusto equilibrio tra apertura del mercato e protezione del lavoro”.

 

Dunque, come si sarebbe detto un tempo, il Jobs Act non va rottamato? “Non scherziamo. Se mai, migliorato. Purtroppo tutto questo non si può dire perché in campagna elettorale, e vale anche per questa campagna elettorale, da una parte e dall’altra ci sono spesso valutazioni su questi temi che prescindono dal merito, frutto di perversi atteggiamenti ideologici in base ai quali tutto quello che è stato fatto prima di noi deve essere cancellato. Questa non è politica, è propaganda”. Pausa. Ricomincia: “Purtroppo bisogna essere sinceri e dire che la campagna ricca di propaganda è causata anche da una legge elettorale che costringe in un modo o in un altro a essere tutti gli uni contro gli altri: per ottenere un voto in più di un altro partito viene quasi naturale parlare più alla pancia che alla testa. E proprio per questo, ma spero di sbagliarmi, mi sembra di essere tornati al 1994”. Nel senso dello spirito riformatore incarnato dal centrodestra nel 1994? “In un altro senso. Nel 1994 il centrodestra fece un accordo preelettorale per vincere le elezioni a qualunque costo. L’idea era semplice: vinciamo e poi si vedrà. Nel 2001 invece venne fatto un accordo per governare. Nel primo caso il governo durò otto mesi. Nel secondo caso è durato cinque anni. Purtroppo temo per il centrodestra che senza uscire dalla bolla di slogan, marketing e propaganda nazionale lo spirito del 1994 rivivrà da questo punto di vista”.

 

Chi vince le elezioni?

 

E come immagina il futuro Maroni? Per essere più precisi: dovesse scommettere un caffè sul risultato delle prossime elezioni, su cosa lo scommetterebbe. “Scommetterei sul Movimento 5 stelle primo partito e sul centrodestra prima coalizione che però a causa di questa legge elettorale del menga potrebbe non avere una maggioranza assoluta in grado di garantire un governo. Lo dico con cognizione di causa avendo dato un’occhiata anche ai sondaggi e a qualche simulazione. Se il centrodestra dovesse prendere il 40 per cento dei seggi al proporzionale e il 70 per cento dei collegi al maggioritario avrebbe una maggioranza alla Camera di tre deputati. Sarebbe dura. Mi auguro che grazie soprattutto all’impegno straordinario di Berlusconi in campagna elettorale il centrodestra abbia una maggioranza forte”. Ma se malauguratamente il centrodestra non avesse la maggioranza? “Vedo una certezza: non ci saranno elezioni anticipate a breve. Passeranno almeno due anni, come minimo. E se le cose dovessero andare così più che un governo di minoranza sul modello spagnolo vedo un governo di grande, piccola o media coalizione”. Sempre che il Pd non crolli. “Il Pd è in difficoltà e Renzi ha fatto un numero tale di errori nella sua breve, fulgida e fulminea vita politica che a volte non ci si crede. Ma siccome non è uno sprovveduto non va sottovalutato e se riuscirà a trovare un argomento forte potrebbe tentare di fare la stessa operazione fatta nel 2006 e nel 2013 da Berlusconi: recuperare nelle ultime tre settimane. Renzi è distante anni luce dall’idea che ho di politica ma è un politico capace. Non ai livelli di Berlusconi e neppure di Bossi, ma è un politico che se solo riuscisse a non essere ostaggio del suo Giglio magico e del nucleo di potere che lo circonda ha ancora potenzialità enormi e da avversario dico che sarebbe un errore pensare che sia finito”. Secondo lei tra Renzi e Salvini, Berlusconi si sente più vicino al primo o al secondo? “Dal punto di vista personale, come carattere e come psicologia, Renzi, senza dubbio”. Ma se non è lei il candidato premier del centrodestra, chi è il candidato premier che ha in testa Berlusconi? “Ovvio. E’ una persona affidabile: si chiama Silvio Berlusconi”. Chiediamo con un sorriso a Maroni: quanto è maroniano il ministro Minniti? “Molto, ma ha ancora tanta strada da fare. Diciamo che ha un 40 per cento di maronismo. Era partito bene. Ha fatto qualcosa di importante. Ma sia sulla sicurezza urbana sia sulla politica dei respingimenti non ha potuto fare quello che avrebbe potuto e forse voluto a causa di un partito che fa fatica ad accettare le sue idee. Concedetemi una provocazione: se venisse nel centrodestra potrebbe essere un buon ministro dell’Interno”. Renzi non va sottovalutato, Minniti neppure, ma si può dire lo stesso di Luigi Di Maio? Maroni sorride e continua nel suo ragionamento. “Non faccio battutine su Di Maio, perché chiunque ci metta la faccia ha sempre il mio rispetto, e non dico neanche che il suo problema sia l’esperienza, perché anche io quando sono arrivato al governo non avevo esperienza. Dico però che il modello grillino non può funzionare perché accanto all’inesperienza c’è anche la non competenza e c’è anche l’assenza di una scuola politica capace di formare candidati solidi che non facciano le figure che fa a Roma la Raggi. Io non sottovaluto neppure il grillismo, che ha potenzialità di sviluppo ancora importanti, dico solo che il Movimento 5 stelle mi sembra come un taxi che prende a bordo il primo che capita, non sulla base di un progetto ma sulla base di un’ambizione personale. Penso per esempio a Gianluigi Paragone. Era uno dei più fieri e accaniti sostenitori della Lega, ora è salito sul taxi grillino seguendo l’esempio di molti: prima delle idee viene la convenienza personale”.

 

La medaglia populista

 

Spesso, facciamo notare a Maroni, la Lega e il Movimento 5 stelle sembrano essere la faccia di una stessa medaglia populista ma poi osservi quello che succede in Lombardia e pensi che non sempre è così: quando il centrodestra e il centrosinistra non inseguono il populismo, il populismo scompare. E’ stato così alle elezioni comunali a Milano, sarà così probabilmente alle elezioni regionali. Maroni dice che no, non è un caso: “Il modo migliore per non far emergere il populismo è non inseguirlo. Vale per la Lombardia ma vale anche per altre regioni pragmatiche, come per esempio l’Emilia Romagna. Se un popolo viene educato a valutare la politica nel merito, quel popolo tende a dire no a chi si occupa solo di retorica”. Maroni non cita l’Emilia Romagna in modo casuale. Insieme con il presidente Stefano Bonaccini, in queste ore il presidente uscente della Lombardia ha trovato un accordo con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni: entro fine gennaio la Lombardia e l’Emilia Romagna avranno concessioni importante in termini di competenze e nuove risorse. Sarà una rivoluzione, dice Maroni, e chissà se è solo un caso che ad avere trovato un accordo con un presidente del Consiglio del Pd sia stato proprio un governatore uscente leghista del quale Salvini sembra avere una fifa blu. Buon viaggio.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.