Paolo Gentiloni (foto LaPresse)

Perché Paolo Gentiloni è il nostro uomo dell'anno

Maurizio Crippa

Il suo governo all’inizio non convinceva nessuno. Un anno dopo, con pochi tuìt, molto grigio e buoni risultati, è diventato il simbolo di un paese ottimista e trasversale, il punto di equilibrio di un’Italia alternativa all’isteria populista 

Il 12 dicembre 2016 a Roma era una giornata tiepida, seppure non completamente limpida, e Paolo Gentiloni indossava una cravatta viola che sarebbe stata forse apprezzata dai prelati amici del suo antenato, ma dalla quale i cronisti intuirono subito che ci sarebbe stato poco da romanzare. Paolo Gentiloni non è un uomo di spettacolo e non bada alle scaramanzie cromatiche. “Come si vede dalla sua struttura, il mio governo proseguirà la linea del precedente”, disse dopo aver comunicato la lista dei ministri. Paolo Gentiloni non ha paura di apparire lapalissiano, e la sua ironia sottile è a disposizione soltanto di chi la sa cogliere. In filosofia sarebbe un aristotelico, o un neotomista per fatto di famiglia. O meglio ancora è un empirista: chiama le cose col loro nome, per come sono. I grossolani, la scambiano per banalità. “Non mi nascondo le difficoltà politiche”, disse anche, determinate dall’esito del referendum del 4 dicembre. La catastrofe che aveva schiantato Matteo Renzi e consegnato a lui il ruolo di eroe della Necessità. Salì “sull’ottovolante”, dixit. Denis Verdini, che era stato escluso dalla nuova squadra, gli mandò un sarcastico augurio, “lunga vita al governo”, quasi uno “stai sereno” di pungente fiorentinità. Ma quella volta non ci azzeccò. Il governo di Paolo Gentiloni è durato tutto il tempo che doveva durare (“il governo dura finché ha la fiducia”. Aristotele, La Palice). Qualcosa più di un anno. Arriverà a chiudere in modo naturale la legislatura che Sergio Mattarella dichiarerà chiusa a breve sciogliendo le Camere e indicendo elezioni, ma con un governo non mai sfiduciato. Perché governo non sfiduciato è buono per un’altra battaglia, per parafrasare il proverbio. E’ già capitato in Spagna, sta capitando a Berlino.

 

Era finita l'epoca del Rottamatore giovane e immaginifico,
una dissolvenza aveva riportato
la politica in bianco e nero

Il 13 dicembre aveva ricevuto la fiducia della Camera, il 14 del Senato. Alla Camera aveva detto, in replica: “Bisogna farla finita con l’apparentemente inarrestabile escalation di violenza verbale nel nostro dibattito politico. Il Parlamento non è un social network”. Con ciò chiudendo virtualmente i canali d’ascolto per la canea grillina, che avrebbe continuato a pestare l’acqua nel suo mortaio e il vuoto nelle zucche del suo 27 per cento. Un linguaggio politico in controtendenza per l’Italia degli ultimi anni, mentre dall’altra parte dell’Atlantico si preparava la presa del potere del tuittarolo senza filtri. Ma siccome Gentiloni è aristotelico, i fatti testardi gli hanno dato ragione: non si governa con i Pater noster, ma nemmeno con i tuìt: i social network quest’anno sono finiti tutti in castigo.

 

I primi tempi fu dura, quel governo nato per interposta persona, per intervenuta iattura, non convinceva nessuno che potesse durare. Né gli amici né i nemici né i commentatori, al solito i più tardi a prendere atto degli eventi. Agli italiani fece un effetto di noncuranza, o di Valium. Era finita l’epoca del Rottamatore giovane e immaginifico, una dissolvenza incrociata da cinema d’altri tempi aveva riportato i rituali d’altri tempi, la politica in bianco e nero. Gli sfottò sul governo fotocopia arrivavano persino dagli uscieri di Palazzo Chigi. La data di scadenza, le battute tutte uguali sul fatto che fosse nobile, che fosse grigio, che fosse stato extraparlamentare, anzi no ex democristiano (non lo è mai stato), che giocava a tennis, anzi forse preferisce i libri, che sembrava il clone di Mattarella, anzi forse di Forlani. Poco altro da dire e niente da capire, come cantava De Gregori quando erano giovani entrambi, nella Roma con l’eskimo. Luciana Castellina disse: “Da extraparlamentare era bravo, poi non so cosa gli sia capitato”. Ma a conti fatti è l’unica cosa che la sinistra che più a sinistra non si può sia riuscita a dire, in un

Dei suoi difetti ha fatto virtù.
Ha attuato un programma politico adeguato ai nuovi tempi,
con morbide curve a evitare le buche più dure

anno.

  

Di tutti i suoi difetti, o presunti tali, il presidente Gentiloni, l’uomo Paolo Gentiloni, ha fatto il suo abito e ha fatto virtù. Ha attuato un programma politico adeguato ai nuovi tempi, con morbide curve a evitare le buche più dure. Ovviamente invece c’era molto da capire. Tempo di ritorno alla Prima Repubblica, al proporzionale, alle coalizioni sghembe e persino alla concertazione sindacale. Ha fatto virtù (e ci ha giocato e ci gioca anche su, da politico vero) della differenza che si portava addosso come un inevitabile cappotto. A partire dalla distanza istintiva, posturale, comunicativa con Matteo Renzi. Quello un eroe popolano, un sindaco del fare, un estroverso nato, un battutista compulsivo, un polemista irrefrenabile. Lui un chierico o persino un mandarino, un piegare la testa in avanti assertivo o dubitativo, ma sempre lo stesso gesto, l’ironia in levare più che in battere, riservata a pochi, le parole mai a ruota libera, sempre arginate. Renzi padrone della scena, del suo corpo e delle sue mani nei discorsi dal palco e nell’interloquire personale, come chi è nato attore o imbonitore; lui sempre un po’ di sbieco anche quando è al centro del palco, lui che le mani non sa mai dove metterle, quando parla: vuoi in tasca, vuoi pendenti e incrociate davanti al busto, lievemente pretesco. Lui con il suo grado zero persino nel vestirsi, sempre uguale a se stesso nel mutare del tempo e dei ruoli, senza però il dandismo accademico di Mario Monti, senza il casual a volte eccessivamente casuale di Matteo, il Renzie. 

 

Adesso che è finito l’anno, e si passa ai bilanci, la percezione è cambiata. Chi parla di Partito Gentiloni, chi di “gentilonismo” addirittura. Gli si attribuisce un progetto politico cui nessuno prima credeva, e quel che prima era insignificanza ora diventa una filosofia premeditata, ben meditata. Sergio Mattarella ci ha sempre creduto, alla durata futura (donec aliter provideatur), ma ora è diventato il nuovo luogo comune: Berlusconi, Violante, Finocchiaro. Calenda e Padoan pour cause. “E’ il candidato naturale”, per Carlo de Benedetti. “Il passaggio dall’uomo solo al comando all’uomo sodo al comando”, definizione fogliante, portava con sé decisive conseguenze, per quanto non tutti né subito le capirono. Lui sì. La prima, che come la scelta del premier era tornata a non spettare più al popolo, così il governo tornava ad essere una funzione separata, quasi autonoma, rispetto ai partiti. Si dura finché c’è la fiducia, o finché ci sono cose da fare. A poco a poco, hanno dovuto farsene una ragione un po’ tutti, tranne qualche sventato che si ostina a mettere il proprio nome sulla lista. Piace, questa nuova situazione politica, a Gentiloni? Anche no. Liberal democratico di vocazione anglosassone, dalla Margherita al Pd non più comunista, l’ha sempre pensata come Renzi, come Walter Veltroni. Ma ha preso atto che le regole erano cambiate. O erano tornate, dopo venticinque anni, alla casella di partenza. Nell’epoca del neo-parlamentarismo, al posto di comando ci vuole uno che sappia praticare l’arte della mediazione. Governare oggi per preparare il terreno a ciò che potrebbe capitare domani. Che un cambio di stile ci sia stato, è certo. Che un cambio di grammatica politica sia stato introdotto, con dosi omeopatiche ma insistite – niente strappi come quando arrivò “la serietà al governo”, e gli italiani fecero finta di crederci un paio di settimane, poi iniziarono a digrignare i denti – è fuori dubbio. Divergono semmai le interpretazioni: svolta duratura, oppure semplice intermezzo di fine legislatura, in attesa del diluvio populista o di un nuovo salvatore della patria. Il dubbio è sottile: Paolo Gentiloni è l’uomo dell’anno, o semplicemente è stato l’anno di Paolo Gentiloni?

 

Liberal democratico di vocazione anglosassone, dalla Margherita al Pd non più comunista, l'ha sempre pensata come Renzi, come Veltroni. Ma ha preso atto che nell'epoca
del neo-parlamentarismo, al posto
di comando ci vuole uno che sappia praticare l'arte della mediazione

Sorvolandolo con il drone di Paolo Gentiloni, questo strano anno iniziato in anticipo e finito prima verrebbe da dire che è stato un anno di sole quieto. Ma The Year of the Quiet Sun è soltanto il titolo di un vecchio romanzo distopico, fantascienza apocalittica, scritto da Wilson Tucker. Non roba per il palato fine del premier, ma la storia è suggestiva, se ci fate caso: uno studioso di statistica, esperto pure di studi biblici, viene mandato nel futuro, con una macchina del tempo, per vedere se le previsioni politiche e sociali elaborate in un momento di grande casino (guerre in Oriente, scontri razziali e altra attualità) abbiamo prodotto qualcosa di buono. In fondo anche Paolo Gentiloni è stato scelto, un po’ dal Caso e un po’ dalla Necessità, e molto da Mattarella, per provare a scoprire quel che sarà l’Italia tra qualche mese, o tra qualche anno. Un’Italia forse più ottimista, uscita dai guai economici e salvata dall’invasione, e forse con un po’ meno di casino politico. Imprese da romanzo, roba da Uomo dell’Anno.

 

La verità è che non è stato un anno esattamente quieto. Di quieto, forse, c’è stato soltanto lui. Per indole e puntiglio. Ricapitolando. Il primo vero atto di governo, prima ancora di Natale, di Paolo Gentiloni – convinto esponente di una sinistra liberale e aperta al mercato, gli va dato atto – fu di nazionalizzare la banca dei comunisti. “Una giornata importante, di svolta, di rassicurazione”, disse. Per necessità e per gusto del paradosso. Il 2017 iniziò con un viaggio a Parigi e una settimana di ricovero al Gemelli, angioplastica. Emergenza gestita senza panico, a parte forse per i suoi più stretti collaboratori appena sbarcati a Palazzo Chigi. Il 18 gennaio il nuovo terremoto nel Centro Italia, poi la tragedia di Rigopiano. Il 20 gennaio alla Casa Bianca si era insediato Donald Trump. A maggio Macron sembrava aver scacciato l’incubo populista dall’Europa, ma a giugno Theresa May si inventa le urne anticipate, prende una tranvata, e la sinistra europea che tanto piace a Gentiloni si trova con il Labour di Jeremy Corbyn come unico modello (quasi) vincente. Un brutto affare. In settembre le elezioni tedesche vanno così così, per Angela Merkel, il vero leader europeo di riferimento del premier. Ancora stanno senza governo. Altro brutto affare. A ottobre il referendum della Catalogna, nel frattempo Kim iniziava a fare il diavolo a quattro. Intanto in Italia a luglio la crisi dell’immigrazione era tanto grave che Marco Minniti parlò di rischio tracollo. Dal Mediterraneo guai, e da Oltralpe la mezza guerra di conquista francese: Mediaset-Bolloré, il putsch di Macron su Fincantieri. Nel mondo è l’anno delle fake news, in Italia quello dello scontro sui vaccini. La gestione della crisi libica. Infine il caso Bankitalia: l’unico scontro vero, plateale, con Matteo Renzi. A Paolo Gentiloni, uomo leale, di lunghe fedeltà, è costato come una ferita di guerra.

 

  

Non è stato esattamente un anno di sole quieto. quello iniziato il 4 dicembre, con la morte in culla della Terza Repubblica e l’inizio di un’involuzione del Partito democratico che né le nuove primarie stravinte da Renzi, né il generoso colpo di reni di Avanti!, il libro a cuore aperto del segretario fiorentino, sono riuscite a fermare. C’è stata la scissione, si sono ritrovati Liberi e Uguali ma anche pochini, ma per il Pd (dunque per il governo) l’andazzo elettorale amministrativo e dei sondaggi sono quel che sappiamo. Poi il Rosatellum, e parce sepulto al maggioritario e al premier indicato direttamente dagli elettori. Mentre tutto intorno i tarantolati si dannano per una leadership che conta ormai un fico secco, l’unico a dar mostra di aver capito, di non essere interessato, è proprio lui. L’uomo che si presentò con la cravatta viola, col suo bagaglio di esperienza da politico professionale dopo un paio di decenni dominati dagli uomini nuovi. E’ stato l’anno di Paolo Gentiloni? O Paolo Gentiloni è l’uomo dell’anno? Se avessimo una copertina come Time, sarebbe sua. Non avendola, proviamo con le parole.

 

Nel mondo è l'anno delle fake news, in Italia quello dello scontro
sui vaccini. La gestione della crisi libica. Infine il caso Bankitalia: l'unico scontro vero, plateale, con Matteo Renzi. A Paolo Gentiloni, uomo leale, di lunghe fedeltà, è costato come una ferita di guerra

Le poche parole dell’uomo di poche parole. Per avere la prima apparizione televisiva bisogna aspettare marzo. E forse c’è la solita ironia, il solito giocare sullo stereotipo del politico che viene da un’altra epoca nella scelta di andare da Pippo Baudo, la Rai democristiana della Prima Repubblica, a “Domenica In”, l’essenza distillata del nazional-popolare. Poi un’altra volta da Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, il nazional-popolare della Seconda Repubblica, ma erano passati otto mesi. Il suo account Twitter è un sepolcro raramente sporcato (meno di duecento tweet in quasi dodici mesi), su Facebook ci sono solo i video ufficiali, niente newsletter né programmi di fidelizzazione per follower ansiosi. “Italy first”, rispose in aprile alla stampa straniera che gli chiedeva una precedenza per le sue dichiarazioni. Mercoledì scorso ha parlato al Financial Times, di Brexit. Prima del viaggio a Delhi un’intervista, quasi esotica, all’Economic Time of India. Un’altra al Washington Post, qualche concessione alle televisioni, la Fox, i telegiornali italiani. E’ andato all’Auditorium di Roma alla presentazione di “Quando”, il romanzo di Walter Veltroni, ma era quasi un atto dovuto. Una volta l’hanno fatto collegare da Palazzo Chigi con l’astronauta Paolo Nespoli, ma faceva molto Ratzinger quando lo costringevano a presentare le encicliche su Facebook. Qualche settimana fa è andato alla Lamborghini, un gioiellino industriale rilanciato da un’intesa virtuosa pubblico-privato, l’Italia che sa fare che gli piace. C’era la presentazione di un nuovo Suv, come se l’avessero portato a un rave party, se l’è cavata con un una battuta d’altri tempi: “E’ una storia che coinvolge tutti: da ragazzo guidavo una 500 ma tra le mie fantasie c’era la Miura”.

 

Anche le dichiarazioni a margine di eventi, o le conferenze stampa ufficiali, sono sempre parche di parole, mai un’aggiunta polemica, a braccio. Non parla quasi mai a braccio, anche quando parla a braccio. Si è studiato prima il dossier, si è preparato su quello che è essenziale dire, ha tolto il resto. Impegni mondani? “Sarà uscito a cena tre volte”, raccontano. Passa tutto il tempo che può con sua moglie, Emanuela Mauro, architetto, sposata nel 1988. Più invisibile di lui.

 

E’ un cambiamento solo di stile? No, è una strategia studiata. Ha fatto tesoro di quello che è, come figura e come portamento, s’è calato nella parte di un presidente del Consiglio a libertà di manovra limitata, e semmai ha accentuato queste caratteristiche. Chi lo conosce, chi lo segue da vicino, testimonia che non è persona fredda (Paolo il freddo), da tenere le distanze. Ha il suo italiano forbito, quando va in giro non si butta in mezzo alla folla, le passeggiate di Berlusconi con o senza la Pascale, i corpo a corpo di Renzi con i fan non sono cosa sua. Ma si ferma a salutare, chiacchiera (spesso con i bambini) cede volentieri all’espressione in romanesco, che è una caratteristica dei politici romani veraci come lui, anche quando vengono da famiglie importanti e da buoni studi, per non perdere il contatto con la realtà. O anche con se stessi. E così, passin passino, è arrivato alla fine di un anno vissuto pacatamente, amministrando ad arte la sua incapacità di essere empatico o peggio simpatico, ad avere una classifica di popolarità eccellente. Sopra a Renzi, ma non solo a lui. Che nell’Italia rancorosa è una cosa rara per un presidente del Consiglio in carica. Un recente sondaggio di Index Research confermava che la maggioranza degli elettori di centrosinistra lo vorrebbe come prossimo premier (17 per cento) davanti a Pietro Grasso (16 per cento) e a Renzi (14 per cento). Il reincarico è la nuova parola magica. Il pontiere, il professionista affidabile, il secchione sempre preparato, la fiducia incondizionata di Mattarella e dei “suoi” ministri sono le poche cose che si dicono sempre di lui. Sempre le stesse.

  

Sarebbe stato un buon allenatore. Ha dato spazio ai suoi ministri,
non solo a Minniti e Padoan,
ma anche a Calenda, ad esempio
sui dossier francesi, su Ilva.
A Lorenzin sui vaccini. Eppure
ci sono state poche fughe in avanti. Le incomprensioni sempre gestite all'interno, con strategia e calma

Ma c’è ovviamente della pigrizia, in questo dipingerlo come l’icona della medietas. Invece sotto c’è un modo diverso di fare le cose. I suoi metodici aggiustamenti in corso d’opera gli hanno permesso di dare una sostanza nuova al lavoro di governare e di portare la nave in porto. Con sopra tutti gli italiani. Lo staff, ad esempio, ristretto e gerarchizzato, che ha voluto sul modello dell’inner cabinet anglosassone, il suo vero riferimento culturale per l’idea di governo. Ha trasformato una necessità politica – quella di avere pochi margini di manovra, un programma obbligato e una fedeltà obbligata – nello strumento volontario di una strategia governante. Un iper professionismo politico esibito (sì, c’è anche dell’esibizionismo nel suo modo di non guardarsi allo specchio, ma sapendo di essere sempre guardato e misurato) contrapposto come modello a una politica fatta per lunghi anni, anche prima di Renzi, da leader carismatici, da uomini prestati dalla società civile o dall’accademia e soprattutto da populisti buoni a nulla e quindi capaci di tutto, come diceva Pannella. “Un leader impopulista”, l’aveva definito su Repubblica Ilvo Diamanti, facendogli assai piacere. E’ di natura un uomo leale. E’, di natura, anche un chiarificatore. Ed è stato, da sempre, un organizzatore. Fu lui il capo staff della campagna di Rutelli sindaco, è lui che ha gestito la sua comunicazione. Sarebbe stato un buon allenatore. Ha dato spazio ai suoi ministri, non solo Minniti e Padoan, ma anche Calenda ad esempio sui dossier francesi, su Ilva. A Lorenzin sui vaccini. Eppure ci sono state poche fughe in avanti, quasi nessuna sbavatura. Le incomprensioni sempre gestite all’interno, con strategia e calma. E’ un regista, ma non da grande bellezza. Ci sono cose da capire, su come ha condotto le cose. Ad esempio sul dossier libico, di gran lunga il più spinoso che gli sia capitato. La sua esperienza da ministro degli Esteri ha contato molto. “Nella crisi libica rivendico il fatto che in fondo quel che abbiamo, gli accordi di Skhirat, deriva in parte da intuizioni che vennero proprio da qua. Da Roma, da quest’incontro e dalla conferenza diplomatica che l’accompagnò”, ha detto con consapevole orgoglio. “Avevamo appena riaperto l’ambasciata, con l’Isis presente a Sirte, e il paese spaccato fra Al-Sarraj, legittimo ma debole, e Haftar, uomo forte in Cirenaica. Oggi siamo ben piantati a Tripoli e Haftar è appena stato in visita a Roma. Per l’Italia e per l’Europa, la Libia è strumentale all’immigrazione. La riduzione del 70 per cento in sei mesi, con diplomazia libica, africana ed europea, è un capolavoro di Gentiloni e Minniti”, ha scritto Stefano Stefanini sulla Stampa. Conosce i dossier, non soltanto le lingue straniere. Il Mediterraneo, poi, è un suo pallino, non solo retorico. Quando scelse di puntare su Serraj, perché la Libia a suo avviso deve essere una, e non due o tre come piace ad altri, c’è chi gli dava di matto e chi si dava di gomito. Non ha avuto torto, e ha fatto leading from behind, il suo stile di regia. Ha parlato con le gerarchie della chiesa, e intanto ha lasciato che Minniti parlasse con Haftar. Se a metà estate Papa Francesco ha mutato linea sui migranti – accogliamoli sì, ma ci vuole realismo – e sembrò che fosse d’accordo con Minniti, è perché dietro c’è stato un lungo lavoro silenzioso. Ai partner europei ha potuto rivendicare: “L’Italia ha fatto più di tutti per l’accoglienza e per colpire i trafficanti. E per questo noi, a testa alta, chiediamo ad altri di fare lo stesso”. Ha combattuto bene contro i populismi, ma anche contro i sovranismi. E’ un incassatore, anche. Dote importante per un pugile. Quando partì l’attacco di Macron, lo ha subito. Il protagonismo ipercinetico di Macron un po’ lo soffre, non è un mistero. Ma un altro avrebbe puntato i pugni, lui è andato cauto, ad esempio sulla vertenza Fincantieri. Qualcosa ha ottenuto. Su Mediaset-Bolloré ha in sostanza taciuto, niente retoriche dell’italianità, quando non c’entrano. S’è tenuto a siderale distanza dalla Rai e dall’implosione della Grande Riforma. Non per niente era stato ministro delle Comunicazioni, sa benissimo quali sono i fili con l’alta tensione, quelli che se li tocchi muori. L’economia? Rimandiamo per praticità ai dati Istat più recenti, persino un politico prudente come lui si è sbilanciato nelle previsioni al rialzo.

 

Poi ci sono anche i passi indietro, ovviamente. L’abolizione dei voucher per evitare il referendum abrogativo promosso dalla Cgil la presentò come una scelta per “un mercato del lavoro moderno e all’altezza”. Quando nominò Valeria Fedeli, sindacalista rossa di lungo corso, ministro dell’Istruzione, molti restarono stupiti, e non capirono la scelta. Che in realtà aveva la sua logica, ma una logica da passo indietro, come poi hanno dimostrato i fatti. La riforma della Buona scuola, ancora in corso d’opera, aveva lasciato aperto un fronte sanguinoso, in chiave sociale e di debito pubblico: un esercito di precari ufficialmente da abbandonare al loro destino ma realisticamente da assorbire, e un mare di possibili ricorsi in grado di arenare qualsiasi concorso. Chi meglio di una sindacalista della Cgil poteva mettersi a trattare, con l’esercito dei professori incazzati? La qualità, e il futuro, saranno per il prossimo giro. E’ andata così anche per lo ius soli, in fin dei conti. Un provvedimento che Gentiloni avrebbe sinceramente voluto, ma che sarebbe costato troppo sangue politico, troppa divisione sociale, affrontato adesso. Ma sono passi indietro che non si spiegano con la debolezza o il cinismo politico dell’uomo, si spiegano con la consapevolezza del politico, eroe della Necessità in un sistema completamente cambiato, e in cui non è più possibile imporre alcunché, riforme audaci o scommesse per il futuro. Anche se a conti fatti tutto questo – come riflette Michele Salvati, economista riformista che alla scommessa del nuovo Pd e delle riforme sociali ha molto creduto e crede – non ha rafforzato di una virgola né il governo, né Gentiloni, né il Partito democratico sul fronte sinistro del Parlamento, o della nazione.

   

Poi ci sono anche i passi indietro, come l'abolizione dei voucher.
Sul referendum del 4 dicembre,
sul sistema maggioritario,
sulla coabitazione tra riforme sociali e mercati la pensava (la pensa) come Renzi e come i riformisti dentro e fuori dal Pd. Ma è cambiato il mondo, e lui è un empirista

Che Partito democratico aveva trovato, quel 12 dicembre, e quale Partito democratico lascia? Quale idea per la prossima sinistra, lui che uomo di sinistra, progressista, indubbiamente è? E’ una buona domanda, cui tocca sottoporre il candidato al titolo di uomo dell’anno. Se avesse veramente contribuito a forgiare una nuova sinistra, una sinistra europea, di quelle capaci di “tradire se stesse”, per usare un concetto fogliante, e proporre un’alternativa valida di governo, di realismo sociale ed economico, di apertura contro i dilettanti allo sbaraglio del populismo e i cultori del sovranismo (“c’è la tendenza all’esaltazione delle sovranità che talvolta assume caratteristiche nostalgiche di piccoli e grandi imperi. E questo sovranismo produce comportamenti che, a loro volta, producono minacce”, ha detto di recente) il premio se lo meriterebbe tutto. Ma è tutto un po’ più difficile, questo va da sé. Lui sul referendum del 4 dicembre, sul sistema maggioritario, sulla coabitazione tra riforme sociali e mercati la pensava (la pensa) come Renzi e come i riformisti dentro e fuori dal Pd. Ma è cambiato il mondo, e lui è un empirista. Piuttosto, come dice Salvati, sono gli altri – quelli che se ne sono andati dalla Ditta, quelli che si immaginano un futuro da Corbyn italiani – che dovrebbero domandarsi perché mai solo dalla componente non ex comunista del Pd, dalla Margherita insomma, sono usciti negli ultimi anni gli unici esponenti in grado di essere credibili uomini di governo. Ora va molto di moda parlare di Paolo Gentiloni come di “un nome spendibile” per la futura premiership, lo ha detto anche un renziano puro come Ettore Rosato. Glielo ha riconosciuto Luciano Violante, persino Anna Finocchiaro. “Meglio lasciare in carica Gentiloni e tornare a votare” è il colpo di genio di Berlusconi, ma ha il merito di illuminare per bene il paesaggio. La conta del “partito di Gentiloni” è un gioco anche frivolo, come ha scritto Giuliano Ferrara, e il presidente non ci si presta, o ci si presta un po’, o finge di non prestarsi. Ma resta la questione: Paolo Gentiloni – un po’ senza parere, un po’ senza volere – ha preso in consegna un anno fa una sinistra, e un Pd, in sostanziale crisi di identità. E ha provato a non smarrire la rotta. Che vorrà fare da grande? E’ una domanda troppo frivola, per l’uomo che cammina con passi felpati. E’ troppo intelligente per non sapere che quando ripete, per un anno, “qui non si fa politica”, sta dicendo la cosa più politica che si possa dire, in questo dato tempo storico italiano. E tutti sanno che un Gentiloni a Palazzo Chigi, ieri, oggi e domani, sarebbe un punto di sintesi plausibile tra un Berlusconi rinsavito e desalvinizzato e una sinistra rinsavita e non votata al suicidio. Ma la copertina di uomo dell’anno la si assegna al tempo passato, e non a futura memoria.

 

Per il futuro – siccome anche se non lo dà a vedere è un uomo di fantasia – si possono invece immaginare un paio di cose che senz’altro gli piacerebbe fare, se ne avrà il tempo e la possibilità. Una è occuparsi dell’agenda del Mediterraneo per i prossimi dieci anni. “Nessuno può pretendere di essere protagonista di una nuova sfera di influenza”, ha detto di recente, Ma “l’Italia chiede meno ambizione e più responsabilità. Non ci sono più garanti esterni ma serve una responsabilità multilaterale, lo dico a noi stessi europei. Bisogna lavorare insieme. Dobbiamo collaborare per costruire un nuovo ordine mediterraneo”. E’ un’area che ama, che conosce, che ha studiato. Rimettere l’Italia al centro del suo mare, è un suo antico cruccio. L’altro è il Meridione. La scorsa settimana è stato a Napoli, a un convegno intitolato “Avere vent’anni al Sud”, organizzato dal Mattino. Ha detto cose non casuali, non banali, come sempre. Ma chi ne conosce le idee, sa che non è incline a quelle visioni super riformiste, anche di sinistra, per le quali il Sud va trattato come il Nord, e la mano invisibile del mercato farà il resto. No, lui è uno che pensa che il Meridione è un caso speciale, e in modo speciale deve essere trattato. Non la Cassa del Mezzogiorno, no. Ma un suo piano Marshall, potesse, lo metterebbe in campo. E sono, anche queste, buone idee per la sinistra che verrà. E insomma: sarà anche che il 2017 è stato l’anno di Paolo Gentiloni. Noi preferiamo dire che è l’uomo dell’anno, un anno vissuto razionalmente. Paolo Gentiloni potrebbe andare avanti così ancora per un pezzo, e divertirsi sempre come il primo giorno. Peccato per quel fatto testardo, lapalissiano e persino aristotelico: che l’anno è finito, tocca andare a votare.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"