Jean-Jacques Rousseau

Il revival pentastellato di Rousseau, il teorico della democrazia totalitaria

Giuseppe Bedeschi

La bandiera grillina è un precursore del totalitarismo

Il pensiero di Rousseau ha goduto di molta attenzione nella cultura italiana degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, cioè ai tempi dell’egemonia marxista. Chi scorra le annate delle riviste comuniste o controllate dal Pci di quegli anni (“Rinascita”, “Società”, “Il contemporaneo”), troverà molti articoli e saggi dedicati al pensatore ginevrino. E pour cause: perché i nove decimi della teoria politica di Marx (la democrazia diretta, il rifiuto della divisione dei poteri, ecc.) provengono direttamente da Rousseau. Sicché fece scandalo quando, negli anni Sessanta, un grande studioso liberale, Vittorio De Caprariis (autorevole firma del settimanale “Il mondo” e della rivista “Nord e Sud”), promosse e curò presso la casa editrice il Mulino una collana dedicata ai “classici della democrazia moderna”: una collana che comprendeva Locke, Hume, Kant, Humboldt, Constant, Tocqueville ecc., ed escludeva Rousseau. Ma De Caprariis aveva ben ragione, perché quando egli parlava di “democrazia moderna” intendeva la democrazia liberale, mentre Rousseau era sì un classico, ma, per dirla con Talmon, era un classico della “democrazia totalitaria”.

 

Oggi Rousseau ritorna al centro dell’attenzione, perché il movimento Cinque stelle ne ha fatto una bandiera (gli avvenimenti storici – amava ricordare Marx – si svolgono sempre due volte: una prima volta come tragedia, e una seconda volta come farsa). Può essere quindi utile ricordare perché gli esponenti del pensiero liberale hanno sempre considerato Rousseau un teorico della “democrazia totalitaria”.

 

Si può fare riferimento, a questo proposito, a un bellissimo saggio di Luigi Einaudi (scritto nel 1956) sul filosofo ginevrino. In questo breve e acuto saggio Einaudi sottolineava la chiave di volta del Contratto sociale di Rousseau: la rigorosa distinzione che il ginevrino istituisce fra “volontà generale” e “volontà di tutti”. La “volontà generale” tende sì al bene comune, ma è un’entità mistica (essa non può errare, è indistruttibile, ecc.); invece la “volontà di tutti” (che, peraltro, è la sola empiricamente verificabile, perché può essere “contata”) è la somma delle volontà particolari dei singoli, cioè è la somma dei loro egoismi. Occorre dunque che la “volontà generale” prevalga sulla “volontà di tutti”. Dice Rousseau: “Come potrebbe una moltitudine cieca, che spesso non sa quello che vuole, perché raramente sa ciò che è bene per essa, realizzare da sé un’impresa così grande e così difficile quale un sistema di legislazione? Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma da sé non sempre lo vede. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato. Bisogna farle vedere le cose come sono, qualche volta come devono apparirle, indicarle la buona strada che essa cerca, proteggerla dalle seduzioni delle volontà particolari, avvicinare ai suoi occhi i luoghi e i tempi, bilanciare l’attrattiva dei vantaggi presenti e sensibili con il pericolo dei mali lontani e nascosti. I singoli vedono il bene che non vogliono; la collettività vuole il bene che non vede. Tutti hanno ugualmente bisogno di guida. Bisogna obbligare gli uni ad adeguare la loro volontà alla loro ragione; bisogna insegnare all’altra a conoscere quello che vuole” (II, 6). Dunque il popolo deve essere guidato, perché non sempre vede il bene, cioè non sempre è in grado di esprimere la “volontà generale”; alla moltitudine bisogna inculcare la “buona strada” (e qui è più che evidente il paternalismo autoritario di Rousseau). Ma in che modo? Einaudi sottolinea le condizioni poste dal ginevrino affinché la “volontà generale” possa imporsi. Occorre che: la deliberazione sia presa dai singoli, i quali votino gli uni indipendentemente dagli altri, senza subire le influenze dei gruppi, delle fazioni, dei partiti (i quali sono sempre qualcosa di negativo, perché paladini di interessi particolari); ma poiché il cittadino vuole il bene ma non lo conosce, egli deve essere istruito e guidato da chi conosce il bene comune; il cittadino, così istruito, deve inchinarsi al risultato del voto; ma egli non ha il diritto di continuare a propugnare quella che egli ritiene la verità e non ha il diritto, ove riesca a persuadere altri, di volgere la minoranza in maggioranza e modificare la legge; no, il risultato della deliberazione gli fa sapere soltanto che egli era nell’errore e non conosceva la verità. I votanti, in realtà, non hanno, col voto di una maggioranza, affermata una volontà generale. Essa preesisteva, ed essi l’hanno soltanto riconosciuta; l’uomo è veramente libero solo se si sottomette a quella volontà generale che egli non ha voluto ma ha semplicemente riconosciuto perché illuminato da coloro che sanno.

 

Questo – aggiungeva Einaudi – il messaggio del cittadino di Ginevra: non il voto dei cittadini, ma il riconoscimento degli dei afferma la “volontà generale”. Rousseau forse non prevedeva che la sua dottrina sarebbe stata feconda di effetti molto gravi, poiché a decine gli dei sono comparsi ed hanno assunto l’ufficio di guide dei popoli. “Da Robespierre a Babeuf, da Buonarroti a Saint-Simon, da Fourier a Marx, da Mussolini a Hitler, da Lenin a Stalin, si sono succedute le guide a insegnare ai popoli inconsapevoli quale era la verità, quale era la volontà generale, che essi ignoravano; ma che una volta insegnata e riconosciuta, i popoli non potevano rifiutarsi di attuare”. La dottrina di Rousseau ha insegnato che la libertà non consiste nel discutere dapprima e poi nell’accettare il volere della maggioranza, salvo il diritto di continuare a discutere e di ridurre la maggioranza a minoranza. “Nel sistema degli dèi e delle guide, che hanno scoperto la vera verità – concludeva Einaudi – gli uomini si sentono liberi solo quando la guida inviata dall’oracolo divino ha indicato la via della verità ed ha condannato l’errore. L’errore, la deviazione, l’opposizione al principio dichiarato nelle tavole fondamentali dell’uomo-guida, del partito-guida, è illecito, è un delitto contro la volontà generale e deve essere eliminato”. In Rousseau sono dunque evidenti le premesse del totalitarismo (e anche Gaetano Salvemini parlò, a proposito del ginevrino, di “infiltrazioni totalitarie”).

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