Distinguere i populismi buoni da quelli beceri

Claudio Cerasa

Perché è un errore dire che tra un Di Maio, un Salvini, un Renzi, un Berlusconi non c’è differenza e sono tutti uguali

Al direttore - Nella conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio ha dichiarato che l’Italia non è più il fanalino di coda dell’Europa. L’affermazione è incoraggiante, ma non è chiaro in base a quale indicatore sia stata fatta. Se si prende, infatti, come riferimento il tasso di crescita del prodotto interno lordo a prezzi costanti – che è il criterio standard per confrontare la performance di diversi paesi – nel 2017 l’Italia si posizionerà purtroppo in ultima posizione, con un pil previsto crescere all’1,5 per cento, un tasso inferiore persino a quello dei paesi che hanno attraversato un periodo di crisi ben peggiore del nostro come la Grecia (1,6 per cento), la Spagna (3,1 per cento) e l’Irlanda (4,8 per cento). Peraltro, secondo le previsioni della Commissione europea, continueremo a essere il fanalino di coda anche nel prossimo biennio, con un tasso di sviluppo medio annuo dell’1 per cento, circa la metà di quello atteso dell’area della moneta unica. Si possono certamente cercare altri indicatori che non ci collochino proprio in ultima posizione, ma un esercizio più utile può essere quello di capire le ragioni di una crescita cosi deludente, nonostante le condizioni esogene particolarmente favorevoli come il basso prezzo del petrolio, l’euro debole e la politica monetaria espansiva attuata dalla Banca centrale europea. Non c’è dubbio che negli ultimi anni l’Italia abbia messo in atto riforme importanti. Giustamente, il governo ha ricordato che “siamo passati dal segno meno a quello più”, aggiungendo, però, che “si poteva fare di più”. Il punto fondamentale, sul quale vale la pena riflettere, riguarda proprio il significato di quel “di più” che si poteva fare. Bisognava fare più riforme, più spesa pubblica, più deficit, più investimenti? Fare chiarezza sui costi e sui benefici delle scelte di politica economica, con particolare riguardo agli impatti di medio-lungo periodo, è auspicabile, soprattutto in questi mesi di campagna elettorale. I cittadini potrebbero finalmente capire “come” i partiti di governo, ma anche quelli all’opposizione, avrebbero potuto, o voluto, fare “di più” nella legislatura appena terminata. E, soprattutto con “quali risorse”. Anche perché, tutti, nessuno escluso, promettono “più spese” in caso di vittoria. Su un punto, in effetti, i politici italiani concordano: la politica fiscale deve continuare a essere espansiva proprio come avvenuto nel triennio passato. Va ricordato che nel 2014-2017 il disavanzo (in rapporto al pil) è sceso unicamente per effetto della riduzione della spesa per interessi, a seguito dell’azione calmierante dell’Istituto di Francoforte; il debito, invece, ha continuato a salire, e dovrebbe superare il 132 per cento del pil. L’Italia, peraltro, è il paese che ha ottenuto la dose maggiore di “flessibilità” (circa 40 miliardi di euro), ossia più tempo e più spesa, ma anche più debito rispetto al pil, perché la crescita non ha accelerato. Nonostante i limiti di questa politica, la “flessibilità” è stata richiesta anche nel 2018. Le coperture, come in passato, sono state rimandate al futuro con il solito “escamotage” delle clausole di salvaguardia che consentono di finanziare la maggior spesa con il debito pubblico. E così, la spesa corrente ha continuato ad aumentare (quella in conto capitale, la parte più produttiva, invece, è stata tagliata). Un caso specifico in proposito è quello del rinnovo del contratto di circa 240 mila dipendenti pubblici. Il governo ha messo sul tavolo oltre il 15 per cento del totale delle risorse della legge di Bilancio 2018 (l’80 per cento è stato utilizzato per sterilizzare le passate clausole di salvaguardia, ma solo per quest’anno). Considerato che si tratta del triplo delle risorse destinate allo “sviluppo” – ossia al futuro dei giovani e delle donne (di cui tanto si parla e poco si fa), sarebbe utile fornire qualche dettaglio in più su come si è arrivati all’accordo siglato il 23 dicembre scorso. Come sono stati calcolati gli aumenti? Che tipo di parametri sono stati presi in considerazione (inflazione, produttività, anzianità, meritocrazia, confronti internazionali)? Che impatto ci si aspetta sull’efficienza del settore pubblico, sulla crescita economica? Infine, sarebbe utile capire se questo è uno dei casi in cui – come sostiene il premier Gentiloni – si poteva “fare di più”, ossia si poteva concedere incrementi salariali più elevati. Se così fosse, diventa chiaro a tutti che il Ministero della Pubblica amministrazione sarebbe – di fatto – diventato il “ministero dei dipendenti della Pubblica amministrazione”. Si dovrebbe allora pensare a creare urgentemente, nella prossima legislatura, un nuovo dicastero per gli “utenti della Pubblica amministrazione”, con un ministro che abbia come obiettivo quello di migliorare l’efficienza dei servizi pubblici e, quindi, la vita di chi deve interagire tutti i giorni con la Pubblica amministrazione. Questo sì che sarebbe il modo per “fare di più”, perché avrebbe un impatto in termini di “più sviluppo”, “più investimenti”, “più capitali dall’estero”, con effetti positivi per l’intera collettività. Invece si è scelto “un bel regalo di Natale” (come presentato da alcuni esponenti del governo), con benefici per pochi, a spese di tutti.


Veronica de Romanis

 

Ragionamento chiaro e lineare. Ma con una piccola avvertenza, utile per chi leggerà la sua bellissima lettera. Dire che si poteva fare di più e meglio è giusto. Dire che non aver fatto di più significa non aver fatto nulla è un errore. E allo stesso modo sarebbe anche un errore dire che tra un Di Maio, un Salvini, un Renzi, un Berlusconi non c’è differenza e sono tutti uguali. I populismi sono molti e sono dovunque ma bisogna ricordarsi una cosa importante: esistono populismi buoni che provano a raccogliere voti per non far vincere i populismi beceri (e che semmai provano a usare i voti raccolti parlando alla pancia del paese per poi parlare alla testa degli elettori) ed esistono poi populismi beceri che provano invece a raccogliere voti per sfasciare un paese – e, per esempio, chi propone un referendum per uscire dall’euro non dovrebbe essere difficile da collocare in questo schema. Grazie, e un caro saluto.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.