Novembre scorso. Dibba e Di Maio al comizio di chiusura della campagna elettorale del M5s per le elezioni regionali in Sicilia (LaPresse)

L'isola dei famosi che non c'è

Michele Masneri

Da Nord a Sud, i provini dei Cinque stelle alla ricerca del candidato preparato. Ma poca roba: un po’ di Corriere, qualche imprenditore pentito, un po’ di buro-struttura romana

Che fatica essere classe dirigente. A dieci anni dal Vaffa Day che riempiva le piazze, i Cinque stelle si avviano alle elezioni con tutte le stanze dei bottoni vuote. La ricerca di riferimenti, culturali ed economici, parte naturalmente dalla grande borghesia, e dunque dal Nord: e forse sarà inutile cercare per il grillismo un imprenditore principe, un Colaninno dell’era dalemiana. Perché forse, come Berlusconi era anche imprenditore del berlusconismo, l’imprenditore di riferimento del grillismo è Grillo stesso, o Davide Casaleggio, “erede” della Casaleggio Associati, presidente della associazione Rousseau, gestore della “intelligenza artificiale” del Movimento cinque stelle. E certo guardando a Milano, rinnovata capitale morale e industriale, l’unico nome che salta fuori è quello di Urbano Cairo – editore non solo del Corriere ma anche di La 7, che rappresenta di certo un interlocutore privilegiato, forse l’unico vero grande imprenditore che esprima, almeno fattualmente, una apertura al mondo grillino.

 

A parte una certa anima del Corriere, e forse qualche recondito pensiero di Cairo, il movimento fatica però a trovare la sua strada nella borghesia milanese e settentrionale. Adesioni eccellenti non ce ne sono, almeno finora, almeno fino alle elezioni, quando qualche insospettabile potrà venire alla luce. Non ce ne sono a parte una ormai antica (2013) presa di posizione di Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica, cui non dispiaceva “il modo di ragionare sulle idee” dei grillini. All’epoca i Cinque stelle avevano incassato anche l’appoggio di Lapo Elkann, che però aveva fatto in tempo a cambiare idea (“ho votato Grillo” disse nel 2013, “ma sapevo che avrebbe finito per non piacermi”). Un altro imprenditore che era stato tentato dal grillismo è Luca Rossetti, amministratore delegato di Fratelli Rossetti, marchio storico delle scarpe e della pelletteria di lusso. “Conobbi Gianroberto Casaleggio anni fa” dice al Foglio, “e il personaggio era molto interessante, aveva delle idee condivisibili soprattutto per quanto riguarda lo sparigliare le carte della politica” dice. Oggi però l’imprenditore è più scettico. “Sono rimasto deluso dalle loro esperienze di governo, in particolare mi lascia perplesso la mancanza di esperienza, e non parlo di esperienza politica, ma dirigenziale. Io se in azienda ho bisogno di un direttore marketing non posso mettere un insegnante, con tutto il rispetto per gli insegnanti”.

 

A parte il Corriere, e forse qualche pensiero di Cairo, il movimento fatica a trovare la strada nella borghesia milanese

Anche per vincere le resistenze della business community del Nord è stato tentato dunque recentemente un approccio più organico con “Sum #01 Capire il Futuro”, la Leopolda pentastellata tenuta ad aprile a Ivrea nelle ex fabbriche Olivetti. Lì, a officiare era proprio Davide Casaleggio, in un evento organizzato per celebrare la memoria del padre Gianroberto mancato un anno prima. Oltre a giornalisti (Mentana, Travaglio) e sociologi (Domenico De Masi), era apparso anche l’amministratore delegato di Google Italia Fabio Vaccarono, tanto che si era parlato di possibili simpatie grilline da parte del manager. Sarebbe stato il primo di quel livello a prendere posizione a favore del M5s, ma, come risulta al Foglio, l’ad ha partecipato alla convention grillina come partecipa ad altri incontri con movimenti politici: è stato visto per esempio anche alla tre giorni di Forza Italia organizzata da Maria Stella Gelmini e Paolo Romani a novembre. Inoltre il manager è originario di Ivrea, il ché spiegherebbe ulteriormente la presenza.

  

 

Una funzione di accompagnamento nei salotti e nei consigli di amministrazione milanesi è svolta invece da Arturo Artom, a suo agio in azienda ma anche nelle occasioni mondane; in prima fila alla Scala anche quest’anno, presente alla cena consueta del finanziere-pianista Francesco Micheli, organizza a sua volta i “cenacoli” cioè cene ad alto tasso di networking destinati a imprenditori che vogliono internazionalizzarsi. Questi cenacoli vedono riuniti diplomatici, imprenditori, manager, tra l’Italia e l’estero, e un ospite fisso è proprio Davide Casaleggio. “Un rapporto nato dall’amicizia e dalla stima che mi legava al padre Gianroberto” dice Artom al Foglio. L’imprenditore accompagna ogni settimana il giovane Casaleggio incontrare imprenditori e finanzieri. E Casaleggio utilizza i cenacoli anche per consolidare il suo ruolo di pontiere diplomatico; a novembre, durante una cena a casa Artom, era presente anche la nuova console americana a Milano Lee Martinez. Mentre Casaleggio jr grazie alla cittadinanza inglese (mamma britannica) è stato recentemente a Roma a colloquio con l’ambasciatore britannico.

 

Sul fronte dell’economia, si cercano pensatori. A livello internazionale, il Pd aveva Enrico Moretti, l’autore de “La nuova geografia del lavoro”, di stanza a Berkeley. Appuntamento fisso di Renzi quando cavalca verso l’amata Silicon Valley, per i grillini l’economista di riferimento è invece a Londra. Mariana Mazzucato, italoamericana, grande teorica della mano pubblica, è docente di economia e innovazione allo University College ed è famosa per il suo libro “Lo stato innovatore” (Laterza), che sostiene il ruolo fondamentale del pubblico nell’economia. La Silicon Valley è frutto dello stato: è una sua teoria.

 

Un altro luogo molto battuto dai grillini è Palazzo Spada. La Suprema magistratura amministrativa, il sogno giudiziario grillino

“Chi è l’imprenditore più audace, l’innovatore più prolifico?” si chiede la quarta di copertina del libro. “Chi finanzia la ricerca che produce le tecnologie più rivoluzionarie? Qual è il motore dinamico di settori come la green economy, le telecomunicazioni, le nanotecnologie, la farmaceutica? Lo stato. E’ lo stato, nelle economie più avanzate, a farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie”. Secondo Mazzucato per esempio l’auto elettrica è frutto dell’intervento pubblico grazie ai finanziamenti di Obama. Iperkeynesiana, teorizza che “il problema è che lo stato manca di un buon reparto marketing/comunicazione”, altrimenti sarebbe glorificato come uno Steve Jobs. Mazzucato sarebbe una paladina ideale della piattaforma di politica economica grillina. “La fondamentale presenza dello stato è indispensabile per l’implementazione della visione di paese che abbiamo, del raggiungimento di obiettivi di sovranità, autosufficienza, di sviluppo” si legge infatti nel programma di sviluppo economico dei Cinque stelle.

 

Mazzucato quest’estate è stata invitata alla Camera a un convegno da Di Maio; infatti l’attività di scouting del M5s che al Nord è affidata alle convention e ai cenacoli, a Roma si costruisce soprattutto in una serrata attività di convegni parlamentari. Lei sarebbe un’ottima ministra per lo Sviluppo economico, e però nega di aver ricevuto alcuna offerta, probabilmente sta benissimo a Londra (ha fatto dei distinguo, anche, sul ruolo dei sindacati nella piattaforma grillina: “Vanno di sicuro riformati, ma io penso che si debba rafforzare, e non indebolire, la capacità dei lavoratori di essere rappresentati” ha detto).

 

E se a Milano si tenta di mettere radici nella borghesia, a Roma rimane il problema di come selezionare uomini di stato che accompagnino nelle pieghe della burocrazia. Qui, con una perfetta eterogenesi dei fini, i più ricercati sono proprio gli sherpa della Prima eSseconda repubblica: quei “professionisti della politica”, in senso buono, di cui scriveva ieri Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, quelli insomma di cui a ogni tornata “rivoluzionaria” ci si vorrebbe sbarazzare, quelli sottoposti a “un faticoso apprendistato” che “consente di acquisire la necessaria competenza: la capacità di rappresentare interessi e la conoscenza della macchina amministrativa”. Il contrario insomma dell’uno vale uno, e della fiaba egualitaria. Il simbolo di questi grand commis è Vincenzo Spadafora, quarantenne responsabile delle relazioni istituzionali di Di Maio. Autobiografia della (seconda) Repubblica: ex capo segreteria di Francesco Rutelli ministro dei Beni culturali, ex uomo-macchina ai vertici dei Verdi ai tempi di Alfonso Pecoraro Scanio, e poi nominato capo dell’Unicef a Roma; e poi ancora primo presidente-Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza in Italia. Conterraneo di Di Maio, Spadafora gode di ottimi rapporti in Vaticano ed è un perfetto Gianni Letta 2.0: ecumenico, l’ultimo dell’anno si è fotografato a via della Conciliazione insieme al suo amato labrador Alice, “siamo andati a celebrare il Te Deum con Papa Francesco e abbiamo pregato per tutti, amici e nemici, credenti e non”, ha scritto sul suo Facebook.

  

 

L'economista di riferimento è Mariana Mazzucato, teorica della mano pubblica. La Silicon Valley è frutto dello stato: è una sua teoria

Un altro luogo di devozione molto battuto dai grillini è palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, con una celebre galleria disegnata dal Borromini, che grazie alle false prospettive trompe l’oeil sembra molto più lunga di quel che realmente è. Un luogo architettonico che si presterebbe volentieri a molte metafore, ma è certo che la galleria è stata battuta dalla sindaca Virginia Raggi nella inutile ricerca di un capo di gabinetto. “La figura del capo di gabinetto è centrale, è un alter ego del sindaco o di un ministro” dice al Foglio un funzionario di lungo corso. “Serve non solo come suo rappresentante ma anche come scudo per il sindaco o il ministro”. “Fu inventata da Crispi e rafforzata da Giolitti per creare uno staff tecnico, per creare un’interfaccia in grado di dialogare coi direttori generali dei ministeri, che sono di più e sono più preparati”. “E’ chiaro che il capo di gabinetto è figura centrale; il suo terreno di coltura è proprio il Consiglio di Stato, di qui o dall’Avvocatura dello Stato vengono selezionati i capi di Gabinetto coi curriculum migliori e, se non sai che pesci prendere, un presidente del Consiglio di Stato è la scelta migliore”.

 

La suprema magistratura tecnico-amministrativa è una nuance del sogno giudiziario grillino. Con un immaginario “sovrano” in Piercamillo Davigo, o altro magistrato di alto rango, sotto, a cascata, in una repubblica giudiziaria, i Consiglieri di Stato sono perfetti semidei sotto Giove. Uniscono infatti la natura del magistrato con la competenza economica-amministrativa. Il consigliere di Stato è dunque animale ibrido, assai amato dai vertici grillini (e l’animale riama, a sua volta: al Foglio risulta che molti consiglieri, soprattutto tra quelli di centrodestra, guardino con favore al grillismo, e intrattengano consuetudini con i suoi rappresentanti).

 

Siccome però sono animali sofisticati, i consiglieri di Stato spesso rifiutano di offrire i propri servigi, per non farsi bruciare. Un altro civil servant che – risulta al Foglio – ha fatto il gran rifiuto come capo di gabinetto nella giunta romana e che ben rappresenta un certo mondo che si mette a disposizione è Alfonso Celotto, capo dell’ufficio legislativo di Emma Bonino, di Roberto Calderoli, di Tremonti, di Federica Guidi. Condirettore del “Dizionario di diritto pubblico” della Giuffrè, oltre ad essere autore di una serie di libri satirici proprio sulla burocrazia, con protagonista il dottor Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale, Celotto partecipa all’attività convegnistica cinquestelle e potrebbe essere un candidato perfetto per la prossima dirigenza grillina. Oltre ad aver servito l’intero arco costituzionale, ad avere un profilo non ideologico, appartiene alla buona borghesia (laurea alla Luiss, dove insegna diritto comparato); e ha pure un lato pop, tiene infatti la rubrica “Carte bollate” ogni lunedì su Unomattina; e il lato televisivo è importante per questa generazione di politici – Alessandro Di Battista fece il provino per “Amici”, il portavoce M5s Rocco Casalino è stato nel primo “Grande Fratello”, anche Spadafora disse che da giovane avrebbe considerato la carriera di presentatore.

 

I provini per i capi di gabinetto però sono il fallimento più duro – per ora – del grillismo di governo. Nessuno ha l’X Factor. Si dimettono, non vengono sostituiti. Per loro l’Isola dei famosi finisce qui. Roma notoriamente ne è priva, dopo sostituzioni e dimissioni. Ma anche a Torino la sede è vacante, dopo vicende anche più turbinose. Qui l’ex capo di gabinetto (mai più sostituito) aveva addirittura un alone sulfureo: Paolo Giordana era detto “Rasputin”, perché, come il religioso che assisteva gli zar negli ultimi giorni della Russia imperiale, è un prete ortodosso. Dice messa nella chiesetta di Santa Maria consolatrice, nel quartiere di San Salvario, raro caso di chiesa in coabitazione – la mattina c’è la messa ortodossa, la sera quella cattolica. Padre Giordana però pare meno astuto del suo riferimento russo; era rapidamente diventato potentissimo al comune di Torino, ma si è dimesso con uguale rapidità dopo l’accusa di aver tentato di far togliere una multa a un amico.

 

Certo, sul capo di gabinetto pesavano altri problemi (soprattutto la gestione della piazza San Carlo la sera della Champions League del 3 giugno, in cui perse la vita una donna, per cui oggi è indagato insieme al sindaco) ed era considerato in bilico anche prima del fatto del biglietto. Ma la questione della multa è stata fatale, e la dice lunga su queste classi dirigenti. Se l’ex sindaco di Roma Marino cadde anche per alcune multe della sua Panda, l’amico del capo di gabinetto torinese, il Rasputin cinque stelle, era sprovvisto perfino di Panda: era stato infatti multato perché senza biglietto, sul tram. 

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