Virginia Raggi (foto LaPresse)

La Costituzione violata

Venerando Monello

Perché il Contratto con penale stipulato da Raggi mostra la truffa costituzionale grillina. Ecco il ricorso che può smascherare il bluff della democrazia diretta

Il prossimo 13 gennaio il tribunale di Roma si riunirà per decidere se ammettere un ricorso contro la candidatura del sindaco Virginia Raggi alle elezioni di Roma dello scorso giugno. Quello che segue è il testo del ricorso presentato dall'avvocato Venerando Monello.

 

Premessa. Il presente ricorso è dovuto alla necessità di porre rimedio a un gravissimo vulnus al sistema democratico, operato con la sottoscrizione, da parte del sindaco Virginia Raggi, del c.d. “codice di comportamento per i candidati ed eletti del MoVimento 5 Stelle alle elezioni amministrative di Roma 2016 nelle liste del MoVimento 5 Stelle” (d’ora in poi semplicemente “Contratto” doc. 1). Contratto di cui i media hanno diffusamente trattato.

In data 18 maggio 2016, intervistata dal settimanale L’Espresso (doc. 2) la candidata Raggi ha ammesso di aver già aderito e sottoscritto il Contratto. Illustreremo più avanti il contenuto del Contratto e gli inaccettabili vincoli che lo stesso impone ai candidati ed eletti nelle liste del MoVimento 5 Stelle. Vincoli che, in quanto incompatibili con il sistema democratico, a nostro sommesso avviso, possono essere rimossi solo in due modi alternativi:

- il primo con la dichiarazione, da parte del Tribunale, della nullità dell’accordo pattizio;

- il secondo con la dichiarazione di ineleggibilità del sindaco Virginia Raggi dalle elezioni amministrative di Roma Capitale del 5 giugno 2016, e pertanto con l’annullamento della proclamazione del sindaco Raggi, e la pedissequa dichiarazione di decadenza della stessa dalla carica di sindaco di Roma Capitale. Ed invero, è proprio questa prima ipotesi che il presente ricorso auspica di realizzare. Non perché non sussistano gli elementi giuridici per consentire all’Ill.mo Collegio di dichiarare le condizioni di ineleggibilità con la conseguente dichiarazione di decadenza del sindaco Raggi, ma perché riteniamo che gli eletti del MoVimento 5 Stelle debbano poter partecipare nell’esercizio di pubbliche cariche e funzioni, in condizione di parità con gli eletti degli altri schieramenti politici, e nella pienezza dei loro diritti e doveri che la Costituzione e la legge riconosce ed impone. 

 

IN FATTO.  A seguito delle elezioni per il rinnovo delle cariche di Sindaco e delle Assemblee Capitolina e Municipali di Roma Capitale, tenutesi in data 5 e 19 giugno 2016, l’Avv. Virginia Raggi è risultata la vincitrice alla carica di sindaco di Roma Capitale. In data 22 giugno 2016 l’Ufficio Elettorale Centrale di Roma Capitale, a seguito delle verifiche di rito, ha proclamato l’Avv. Virginia Raggi Sindaco di Roma Capitale. In data 7 luglio 2016 si è tenuta la prima seduta dell’Assemblea Capitolina durante la quale il sindaco Virginia Raggi ha prestato il giuramento di rito ed ha comunicato all’Assemblea Capitolina la composizione delle Giunta. È stato, pertanto, regolarmente espletato l’intero iter procedurale della proclamazione degli eletti. Tale successo elettorale poggia su di una specifica condizione: per poter essere candidata nelle liste del MoVimento 5 Stelle, ed in particolare per poter essere candidata a Sindaco di Roma, la Raggi avrebbe dovuto sottoscrivere, come la stessa ha poi confermato, un Codice di comportamento con il suddetto movimento.

Tale Codice di comportamento è un vero e proprio contratto tipo, un contratto per adesione ciclostilato, al candidato viene persino sottratta la possibilità di negoziarlo. Egli può soltanto scegliere se aderire o non aderire. Proprio come avviene per i contratti con molte società che forniscono, a pagamento, servizi ai consumatori. Un contratto per adesione insomma, con tanto di clausole vessatorie e penali “da almeno 150 mila euro” in caso di inadempienza, neanche palesate come tali ai sensi dell’art. 1342 co. 2.

In data 4 aprile 2016, lo scrivente Avvocato, indirizzava una lettera raccomandata a mezzo pec alla candidata Virginia Raggi (datata 31 marzo 2016, doc. 3), con la quale la informava che, sussistendo il proprio diritto, quale cittadino-elettore, a conoscere eventuali limiti connessi alla sua eventuale futura funzione pubblica, invitava la Raggi, formalmente e pubblicamente, a rispondere alle seguenti domande, con avviso che il suo silenzio sarebbe stato considerato quale effettiva volontà di accettare il contenuto degli accordi stabiliti nel c.d. “Codice di comportamento per i candidati ed eletti del Movimento 5 Stelle alle elezioni amministrative di Roma 2016”. Si riportano di seguito le domande poste alla candidata Raggi:

1) “Ha la candidata a sindaco di Roma, Virginia Raggi, sottoscritto il contenuto degli accordi stabiliti nel c.d Codice di comportamento per i candidati ed eletti del Movimento 5 Stelle alle elezioni amministrative di Roma 2016?

2) Ha la candidata a sindaco di Roma, Virginia Raggi, intenzione di sottoscrivere il contenuto degli accordi stabiliti nel c.d Codice di comportamento per i candidati ed eletti del Movimento 5 Stelle alle elezioni amministrative di Roma 2016?

3) Nel qual caso, con quali modalità contrattuali si svilupperà l’accordo? Offrirà garanzie personali, reali? Ipotecherà casa, o firmerà una fideiussione a garanzia della penale da 150mila euro?

4) Con quali modalità la candidata a sindaco di Roma, Virginia Raggi, intende dare attuazione al punto n. 2 del Codice di comportamento che reca: ‘Le proposte di atti di alta amministrazione e le questioni giuridicamente complesse verranno preventivamente sottoposte a parere tecnico-legale a cura dello staff coordinato dai garanti del Movimento 5 Stelle, al fine di garantire che l’azione amministrativa degli eletti M5S avvenga nel rispetto di prassi amministrative omogenee ed efficienti, ispirate al principio di legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione’?”

Tuttavia, l’invito, seppur trasmesso nelle forme della raccomandata a mezzo pec, non è risultato idoneo ad ottenere alcun riscontro da parte della candidata Raggi. Solo in data 18 maggio 2016 – come già in narrativa – si apprendeva della effettiva sottoscrizione del Contratto (doc. 2), da parte della candidata Virginia Raggi, e presumibilmente anche da tutti i candidatiti della lista MoVimento 5 Stelle.

Alessandro Di Battista (foto LaPresse)

Abbiamo appreso dalla lettura di numerosi articoli di stampa (doc. 4) che, a seguito della dipartita di Gianroberto Casaleggio, il di lui figlio, Davide Federico Dande Casaleggio, sia succeduto nel ruolo di “Garante” del MoVimento 5 Stelle in precedenza ricoperto dal padre, unitamente a Beppe Grillo. Riteniamo, pertanto, anche se in assenza di formale documentazione, che Davide Federico Dante Casaleggio, effettivamente ricopra tale ruolo, e che dunque egli sia e possa essere considerato l’erede di Gianroberto Casaleggio nel ruolo di Garante così come indicato dal Contratto. Diversamente, nel caso in cui ciò non corrisponda al dato reale, invitiamo il dott. Davide Federico Dante Casaleggio a non costituirsi nel presente giudizio. Fin qui i fatti.

 

Prima di esporre le argomentazioni di diritto, ed anche in ragione della particolarità e novità della fattispecie in esame, questa difesa ritiene utile sottoporre all’attenzione dell’Ill.mo Collegio, alcune considerazioni necessarie per meglio descrivere la cornice di carattere storico-giuridica degli aspetti di diritto sottesi alla questione oggetto di giudizio. Premessa in diritto: violazione dell’art. 67 Cost.

Il Contratto pone in essere un rapporto giuridico trilaterale tra l’associazione MoVimento 5 Stelle, i c.d. Garanti, ovvero Giuseppe Piero Grillo (detto Beppe) e Gianroberto Casaleggio (recentemente defunto, ed il cui ruolo è stato assunto dal di lui figlio Davide), coadiuvati da uno staff, ed i candidati (oggi eletti) alle elezioni amministrative del 5 giugno 2016 di Roma Capitale. La finalità del Contratto non è solo quella di coordinare e gestire l’attività politica degli amministratori eletti nelle liste del M5S, ma quella di coartare la volontà decisionale degli atti politici e amministrativi degli stessi eletti, attraverso l’imposizione di specifiche direttive in deroga al principio costituzionale di divieto di mandato imperativo, ottenute anche attraverso la concreta possibilità di azionare contro gli amministratori il pagamento di una sanzione pecuniaria, in caso di dissenso, di “almeno 150mila euro”.

Una penale contra legem, davvero sproporzionata ed irragionevole, se si tiene conto del fatto che tale importo è (nella quasi totalità dei casi) addirittura superiore rispetto alle somme che gli eletti percepiranno per l’intera durata del loro mandato quinquennale. In sostanza, l’intento che l’associazione MoVimento 5 Stelle ed i c.d. Garanti, ovvero Beppe Grillo e Davide Casaleggio, è quello gestire – nascosti dietro un opaco velo societario – l’amministrazione capitolina, sostituendosi nelle funzioni di carica degli eletti del M5S, in spregio agli artt. 3, 67 e 97 Cost., dell’art. 3 co. 3 del Regolamento del Consiglio Comunale di Roma Capitale, nonché dell’art. 1 L. n. 17 del 1982. Scriveva Edmund Burke, nel Discorso agli elettori di Bristol del 3 novembre 1774 che “Il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell’intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale”. Con il principio del libero mandato (ovvero del divieto di mandato imperativo), – formulato da Edmund Burke - si afferma la difesa dei principi della democrazia rappresentativa contro l’idea, da lui considerata distorta, secondo – cui gli eletti dovessero agire esclusivamente a difesa degli interessi dei propri elettori. Il divieto di mandato imperativo fu una delle istanze costituzionali del movimento rivoluzionario francese del 1789. La Costituzione francese del 1791, infatti, sancì in questi termini il divieto di mandato imperativo: “I rappresentanti eletti nei dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare, ma della nazione intera, e non potrà essere conferito loro alcun mandato” (Costituzione francese del 1791, art. 7, sez. III, capo I, titolo III).

L’esempio della Costituzione francese del 1791 è stato seguito dalle costituzioni successive, sicché il divieto di mandato imperativo è oggi presente in tutte le democrazie rappresentative, con eccezione di quattro Paesi (Portogallo, Panama, Bangladesh e India) ed era assente solo nelle dittature comuniste. Peraltro, il Consiglio d’Europa sconsiglia vivamente l’adozione del vincolo di mandato, ritenendolo un requisito inaccettabile per uno stato democratico (Parliamentary Assembly of the Council of Europe: The functioning of democratic institutions in Ukraine, Kyiv Post, 5 ottobre 2010). La norma contenuta dell’art. 67 non è quindi un’esclusiva della Costituzione Italiana, ma è comune alla quasi totalità delle democrazie rappresentative. Un suo cardine.

E’ opinione comune della dottrina che questo divieto, istituito dalla rivoluzione francese, esiste a tutt’oggi in tutte le costituzioni democratiche perché altrimenti si ricadrebbe nella rappresentanza medievale, o comunque premoderna, per la quale il rappresentante è soltanto l’emissario, l’ambasciatore di un padrone. Aspetti questi ultimi comuni a tutti i regimi totalitari. Abolire il divieto del mandato imperativo è evidentemente inaccettabile per - !8 - qualsiasi costituzionalista, e per i cittadini e le cittadine che hanno insiti, nel DNA del “sapere e della conoscenza”, i capisaldi delle conquiste democratiche nella Storia dell’evoluzione umana. Recita l’art. 67 Cost: “Ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Con questa formulazione i Costituenti intesero attribuire rilevanza costituzionale, in primis al principio secondo il quale il membro del Parlamento deve dirsi rappresentativo dell’intera nazione (e non già del solo ambito partitico, geografico o sociale da cui direttamente proviene) e, in secondo luogo a quello, di matrice chiaramente liberale, che si sostanzia nel cosiddetto “divieto di mandato imperativo”.

Beppe Grillo, Virginia Raggi, Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Già lo Statuto Albertino del 1848, in verità, riconosceva espressamente la vigenza di tale principio, che veniva consacrato nell’articolo 41, secondo cui: “I Deputati rappresentano la Nazione in generale e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori”. Il punto di fondo è garantire la libertà dei parlamentari. Per tale fine sono previste, a monte, precise norme di ineleggibilità e di incompatibilità e, a valle, l’assenza di ogni “vincolo di mandato”.

Quanto alla loro reale portata, i due principi (quello di rappresentanza della nazione e quello del divieto di mandato imperativo) appaiono reciprocamente correlati, tanto da esser generalmente interpretati come l’uno (il secondo) la diretta conseguenza dell’altro (il primo). Il principio del divieto di mandato imperativo (o della libertà di mandato, come viene anche definito), in sostanza, consente all’eletto di esercitare il suo mandato in piena libertà ed autonomia nei confronti di chiunque (compresa, dunque, la frazione del corpo elettorale che lo ha eletto) e, allo stesso tempo, impedisce che l’elettore possa impartire disposizioni giuridicamente vincolanti, in relazione al modo in cui deve essere esercitata l’attività rappresentativa. Da ciò, tra l’altro, discende l’importante corollario della cosiddetta “irresponsabilità politica” del parlamentare nel corso del mandato, che si sostanzia nell’impossibilità, per il corpo elettorale, di rimuovere, nel corso della legislatura, un suo eletto: l’unico, possibile, momento in cui l’elettore potrà far valere le conseguenze della responsabilità politica, viene generalmente individuato nella tornata elettorale successiva, in quanto l’elettore, insoddisfatto per il contegno tenuto dal proprio rappresentante, potrà non confermare il voto in suo favore.

Nella classica ricostruzione di Costantino Mortati, l’art. 67 Cost. serve a superare la rappresentanza di interessi, dal momento che il Parlamento è un “organo di due enti”: il corpo elettorale e lo Stato. Certo, il fatto che tra elettori e parlamentari si frappongano i partiti complica le cose. Ma, a maggior ragione, – affermano i padri costituenti – la libertà degli eletti sarebbe viziata qualora il partito di appartenenza potesse vincolarne voti e funzioni. Per tale motivo, ad esempio, sono certamente illegittime le prassi di alcuni partiti di far firmare ai propri eletti lettere di dimissioni in bianco, da poter utilizzare al momento del bisogno. Parimenti, la Corte costituzionale (con la sent. n. 14 del 1964) ha chiarito che il parlamentare può ben votare contro le indicazioni del proprio partito, senza che ciò abbia alcuna ripercussione sullo status di parlamentare. Al più, il deputato o senatore ribelle potrà essere espulso dal gruppo, ma rimarrà in tutto e per tutto un parlamentare della Repubblica. La ricostruzione più diffusa, dunque, considera che, se è vero che la sovranità appartiene al popolo, è altrettanto vero che deve essere esercitata nelle forme e con i limiti specificamente previsti dalla Costituzione (come precisa l’art. 1 Cost.).

Davide Casaleggio (foto LaPresse)

Ma anche la teoria di Andrea Manzella, che enfatizza il rapporto tra popolo e Parlamento, disegnando il secondo come organo del primo, nulla cambia nel caso specifico: resta chiara, anche in questa prospettiva, l’impossibilità per i partiti di imporre agli eletti come votare. Il divieto di mandato imperativo rappresenta, tra l’altro, anche uno dei più significativi terreni di scontro tra la classica concezione dottrinaria della rappresentanza politica ed il diffuso “sentire” dell’opinione pubblica contemporanea: mentre, infatti, ancora oggi gran parte della dottrina ritiene il divieto di mandato imperativo uno strumento imprescindibile al fine di garantire l’esercizio, immune da condizionamenti, del mandato parlamentare (che, infatti, in sua assenza, verrebbe indebitamente limitato da pericolose forme di pressione), al contrario la cosiddetta “opinione pubblica” tende a considerare come prioritario il pieno rispetto del “vincolo di fedeltà elettorale”, stretto con il popolo al momento delle elezioni ed interpreta alla stregua di intollerabili tradimenti “di palazzo”, orditi ai suoi danni, tutte le ipotesi di “cambio di rotta”, in corso di legislatura, da parte del parlamentare. Il principio del divieto di mandato imperativo, tende a caratterizzarsi, come anticipato, quale garanzia, in favore dell’eletto, che nessuno (né gli elettori, né tantomeno i partiti di appartenenza) possa revocare il mandato conferito (magari come “sanzione” a fronte di comportamenti assunti in sede parlamentare e non più condivisi) ma non si estende sino ad impedire forme, più o meno “stringenti”, di condizionamento, da parte del gruppo parlamentare di appartenenza, nei confronti del singolo eletto.

In questo contesto, in cui l’analisi tende fisiologicamente ad oscillare tra l’area del “giuridico” e quella del “politico”, un insostituibile ruolo non può che essere riconosciuto ai partiti che, come si sa, trovano anch’essi riconoscimento costituzionale (articolo 49) come strumenti per l’esercizio della democrazia rappresentativa. Ecco che, allora, il principio del divieto di mandato imperativo, lungi dallo svuotarsi di significato pratico, si trova invece ad interagire con quello, altrettanto fondamentale, del pluralismo politico; viene in rilevo, in questo modo, la questione della cosiddetta “disciplina di partito” e della legittimità – talvolta discussa – di tutti quegli strumenti, incentivanti ma anche sanzionatori, utilizzati al fine di garantirla, soprattutto nella quotidiana vita parlamentare. E’ di tutta evidenza, infatti, che gli strumenti posti a presidio della “disciplina di partito” funzionino quali elementi di forte limitazione del contenuto pratico del disposto dall’articolo 67 della Costituzione, non foss’altro perché il parlamentare tende spesso, nei fatti, ad uniformarsi alle direttive del gruppo di appartenenza anche per il timore che un eccesso di comportamenti “autonomi” possa indurre i vertici della formazione politica a non candidarlo alle successive elezioni.

Già nel 1964 la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 14) ebbe a precisare che, all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano, il membro del Parlamento è “libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito, ma è anche libero di sottrarsene”, lasciando intendere, dunque, che esistono due livelli – anche concettuali – che debbono rimanere ben distinti: da una parte va riconosciuta la piena autonomia del parlamentare, costituzionalmente garantita e, dunque, inviolabile ma, dall’altra, deve essere affermata anche la piena legittimità costituzionale di un sistema di regole e sanzioni che i gruppi parlamentari si possono dare, a tutela della loro funzionalità ed efficienza ed anche in vista del più generale “valore” della stabilità governativa. Tali tipologie di regole e sanzioni debbono riconoscersi legittime, anche alla luce del dettato costituzionale, in quanto il parlamentare esercita una libera scelta – sempre, peraltro, revocabile – aderendo ad un dato gruppo politico e, dunque, sottoponendosi al suo ordinamento interno.

Per ciò che concerne, invece, la tipologia delle sanzioni irrogabili contro gli atti di inosservanza della disciplina di partito, la loro legittimità si limita alla sfera del rapporto tra il membro ed il suo gruppo parlamentare di riferimento, non potendo, ovviamente, estendersi sino a toccare lo status di parlamentare o i rapporti con le istituzioni rappresentative (costituirebbero, ad esempio, sanzioni palesemente illegittime, quelle che prevedessero, a fronte di certi comportamenti, obblighi di dimissione dalla camera di appartenenza o anche semplici sospensioni dell’attività istituzionale rappresentativa). D’altra parte, a riprova della ricordata “scissione” tra il momento istituzionale e quello politico, si può ricordare anche che i Regolamenti Parlamentari riconoscono pienamente la possibilità, per il membro che sia in dissenso rispetto al proprio gruppo di appartenenza, di poter esprimere pubblicamente la propria posizione, attraverso una specifica dichiarazione definita, appunto “in dissenso”. Allo stesso tempo, i Regolamenti parlamentari, nel momento in cui prevedono l’istituzione del cosiddetto “Gruppo Misto”, implicitamente riconoscono anche la piena legittimità di tutti quei comportamenti volti ad “abbandonare”, da parte di un membro, il gruppo parlamentare di origine e, dunque, a “tradire” il mandato elettorale ricevuto dagli elettori.

Federico Pizzarotti (foto LaPresse)

E’ inoltre noto all’Ill.mo Tribunale che il divieto di cui all’art. 67 Cost. ha portata generale e non trova applicazione esclusivamente nei confronti dei parlamentari della Repubblica, ma si estende a tutti coloro i quali esercitano pubbliche cariche elettive di rappresentanza politica. Sul punto, a mero titolo esemplificativo, CdS, sez. IV, 27 maggio 2002, n. 2893, secondo cui a proposito degli organi elettivi di una Camera di commercio “il rapporto che lega l’eletto nel consiglio della Camera di commercio industria e artigianato all’associazione di appartenenza non esercita un’influenza giuridicamente rilevante, stante il principio del divieto di mandato imperativo sancito dall’art. 67 Cost.; pertanto il venir meno dell’appartenenza all’associazione non può ritenersi presupposto per dichiararne la decadenza dalla carica di consigliere camerale”.

Dello stesso avviso CdS, sez. I, Adunanza di Sezione del 19 dicembre 2012, n. affare 04603/2010, secondo cui “il componente elettivo di un organo collegiale - una volta esclusa la vincolatività del mandato ricevuto dagli elettori ( la regola del divieto del mandato imperativo è desumibile per i parlamentari dall’art. 67 Cost. ) e cioè la rappresentatività da parte degli eletti di una porzione di elettorato - è portatore dell’interesse collettivo al pari di ogni altro soggetto eletto; la posizione dell’uno è pari alla posizione dell’altro, l’una è indifferenziata rispetto all’altra”. Conformi, inoltre, CdS sent. n. 05975/2012; CdS sent. n 05626/2011; Tar Lazio, sez. I Ter, sent. n. 01098/2011; Corte Cost. sent. n. 96 del 1968.  

 

IN DIRITTO.  1) Violazione dell’art. 67 Cost. in riferimento ai punti 2, 3 4, 6 e 7 delle statuizioni pattizie contenute nel Contratto. 2) Violazione degli artt. 3 e 97 Cost. 3) Violazione degli artt. 3 co. 3, 7 e 23 del Regolamento del Consiglio Comunale di Roma Capitale. 4) Nullità del Contratto in ragione della penale di cui al punto 10 dell’accordo pattizio. Violazione dell’art. 3 Cost. 5) Violazione dell’art. 1 L. n. 17/1982, c.d. Spadolini. Ai sensi degli artt. 126 e ss. del c.p.a. “Il giudice amministrativo ha giurisdizione in materia di operazioni elettorali relative al rinnovo degli organi elettivi dei comuni, delle province, delle regioni e all'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia”, pertanto la presente controversia si radica nella giurisdizione del Giudice ordinario, anche ai sensi dell’art. 22 del Dlgs. n. 150/2011.  

 

1) Violazione dell’art. 67 Cost. in riferimento ai punti 2, 3 4, 6 e 7 delle statuizioni pattizie contenute nel Contratto. Delle violazioni di cui dell’art. 67 Cost. abbiamo già ampiamente argomentato nelle premessa in diritto, pertanto qui ci limiteremo sostanzialmente ad evidenziare le stesse violazioni rispetto al contenuto pattizio del Contratto. Il Contratto è composto da dieci punti (che in realtà sono nove perché manca del tutto l’art. 8). Al punto 2 lettera d), si palesa, a nostro sommesso avviso, la più grave delle irregolarità contrattuali. Si conviene che “Le proposte di atti di alta amministrazione e le questioni giuridicamente complesse verranno preventivamente sottoposte a parere tecnico-legale a cura dello staff coordinato dai garanti del Movimento 5 Stelle, al fine di garantire che l’azione amministrativa degli eletti M5S avvenga nel rispetto di prassi amministrative omogenee ed efficienti, ispirate al principio di legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione”. A differenza degli atti politici, gli atti di alta amministrazione sono soggetti all’obbligo di motivazione previsto dalla legge sulla trasparenza amministrativa (L. n. 241 del 1990), e si caratterizzano come atto a forte valenza fiduciaria, che non comporta l’esclusione dell’obbligo di motivazione. Cosicché i c.d. detti Garanti, ovvero Beppe Grillo e la Casaleggio associati s.r.l., si sostituirebbero alla pubblica amministrazione, senza essere tenuta, a differenza della prima, agli obblighi di motivazioni e alle garanzie di legge che regolano l’azione amministrativa.

E’ qualcosa di una gravità abnorme! In sostanza, due privati cittadini che non ricoprono alcun titolo o specifica pubblica funzione che a ciò li possa in qualche modo legittimare, ed una società di capitali quale è la Casaleggio e associati, avocano a sé tutte le scelte più importanti che gli amministratori, Sindaco e Giunta compresi, dovranno compiere. Dagli appalti pubblici, alla gestione delle municipalizzate, dal piano regolatore, alla revoca di un assessore, solo per fare alcuni esempi. Tanto che al punto 6 del Contratto si prevede già l’utilizzo, in assenza di regolare bando di gara, di un non meglio precisato sistema che l’amministrazione dovrà subito utilizzare: “Dovrà essere adottato LEX per discutere le proposte di delibera o di regolamento a livello comunale non appena attivo anche per il comune”. Software, peraltro, prodotto proprio dalla Casaleggio associati s.r.l., la quale in caso di vittoria del MoVimento 5 Stelle beneficerà di un acquisto imposto in violazione di qualsiasi gara pubblica.

Inoltre, la stessa denominazione “Lex” è ingannevole in quanto fa riferimento al termine legge, o più in generale diritto, mentre in realtà è un comune software di gestione prodotto a fini commerciali dalla Casaleggio e associati s.r.l. Con l’espressione: “le questioni giuridicamente complesse verranno preventivamente sottoposte a parere tecnico-legale a cura dello staff”, si intende esautorare non solo il ruolo di chi è stato democraticamente eletto per quella carica, ma addirittura il ruolo e le funzioni che sono preposte per legge ai Dirigenti e all’Avvocatura comunale, ed affidare tali, delicatissime, funzioni ad uno studio legale di fiducia della Casaleggio e associati s.r.l., estraneo all’amministrazione. Magari un noto studio legale. Sarebbe la privatizzazione di Roma Capitale. Al punto 3 stabilisce che “Il Sindaco, gli Assessori e i consiglieri del M5S dovranno operare in sintonia con i principi del M5S, con gli obbiettivi sintetizzati nel programma del M5S per Roma Capitale, con le indicazioni date dallo staff coordinato dai garanti del Movimento 5 Stelle”.

Ma chi fa parte dello staff di coordinamento? Da chi è stato eletto? Qual’è il limite della sua “influenza”? Domande che non hanno, allo stato, alcuna risposta. Se non quella che arriva dall’eco dei regimi totalitari. Il tentativo di Beppe Grillo e della società di capitali Casaleggio e associati di ambire a realizzare un controllo personale e totale dell’amministrazione di Roma Capitale si palesa al punto 4: “La costituzione dello “staff della comunicazione” delle strutture di diretta collaborazione politica degli eletti, sarà definita da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio in termini di organizzazione, strumenti e scelta dei membri […]”. Non solo si sottrae agli eletti (compreso il sindaco) il diritto di scegliersi liberamente e fiduciariamente il proprio staff di collaboratori, ma addirittura al punto 7 chiarisce che “Le proposte di nomina dei collaboratori delle strutture di diretta collaborazione o dei collaboratori dovranno essere preventivamente approvate a cura dello staff coordinato dai garanti del Movimento 5 Stelle”. In buona sostanza il duo Grillo-Casaleggio e associati s.r.l., in tema di comunicazione, si sostituirà persino agli uffici comunali già esistenti. È del tutto palese il goffo tentativo di aggirare, attraverso il Contratto, il divieto di vincolo di mandato imperativo costituzionalmente sancito.

 

2) Violazione degli artt. 3, e 97 Cost. Dalle sovra esposte argomentazioni non emergono soltanto le violazioni delle norme pattizie contenute nel Contratto in relazione all’art. 67 Cost., idonee in re ipsa a rilevare la macroscopica ineleggibilità del sindaco Virginia Raggi e di tutti gli eletti nelle liste del MoVimento 5 Stelle, ma emergono altre e gravi violazioni degli accordi pattizi contenute nel Contratto in relazione ai principi di imparzialità, indipendenza e buon andamento sanciti all’art. 97 Cost. I Padri costituenti hanno disciplinato, seppur in via di principio, tutti gli aspetti dell’amministrazione e le varie forme di responsabilità al suo interno, lasciando la normativa riguardante l’esecutivo in chiave politica e la stessa forma di governo “a maglie larghe”, onde evitare la creazione di un esecutivo forte. Evidentemente, gli stessi erano consapevoli della circostanza che fosse proprio l’amministrazione ad assicurare l’essenziale continuità dello Stato al di là delle contingenze del sistema politico e della stessa forma di governo nei suoi aspetti chiaramente giuridici.

Come ben osservava Costantino Mortati, la necessità di introdurre nella Co stituzione norme relative all’amministrazione pubblica è stata motivata da due esigenze: garantire una certa indipendenza ai funzionari ed agli amministratori (dato che “al potere si alternano i partiti”) finalizzata ad avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione di parte; creare un’organizzazione che giovasse alla individuazione delle responsabilità, nel senso che la responsabilità non fosse definita soltanto teoricamente ma in concreto precisata, e questo per la giusta preoccupazione che nella pratica fosse assai difficile la verifica e la dimostrabilità. La proposta Mortati prevedeva che alle dirette responsabilità corrispondessero attività svolte effettivamente. Come scriveva tempo addietro il Prof. Allegretti nella sua monografia sull’argomento, il canone dell’imparzialità della pubblica amministrazione presupporrebbe infatti che gli organi amministrativi (siano essi monocratici o collegiali) siano posti in condizione di esprimere la loro volontà in una situazione di distacco e di indipendenza.

Il problema della compatibilità del metodo elettivo previsto per la nomina dei collegi amministrativi con l’art. 97 Cost. non si pone solamente con riferimento alle commissioni dei concorsi, ma anche con riguardo a tutti gli organi amministrativi. Le rigide e contra legem condizioni del Contratto, unitamente alle abnormi modalità di esecuzione dello stesso, sottraggono al sindaco, ed ai futuri consiglieri capitolini, non solo quella agibilità politica che la Costituzione e la legge garantisce a chi ricopre quelle cariche (insieme, ovviamente, al rispetto dei relativi doveri), ma finisce con lo svilire del tutto i principi ispiratrici dell’agire della pubblica amministrazione così come sanciti all’art. 97 della Costituzione repubblicana. Ancora una volta, come per l’art. 67 e per l’art. 3 Cost., è del tutto palese il goffo tentativo di aggirare, attraverso il Contratto, i principi di imparzialità, indipendenza e buon andamento costituzionalmente sanciti.

 

3) Violazione degli artt. 3 co. 3, 7 e 23 del Regolamento del Consiglio Comunale di Roma Capitale. Quanto sopra descritto si pone in contrasto non soltanto con gli artt. 3, 67 e 97 della Costituzione repubblicana. Tant’è che il divieto di vincolo di mandato è sancito all’art. 3 co. 3 del Regolamento del Consiglio Comunale di Roma Capitale: “I componenti del Consiglio Comunale e i Consiglieri Aggiunti esercitano le loro funzioni liberamente e senza vincoli di mandato”. Ulteriore violazione regolamentare è quella sancita all’art. 23 del Regolamento del Consiglio Comunale di Roma Capitale, che espressamente dispone, al comma 1, che “il Consiglio Comunale, per l?esercizio delle sue autonome funzioni e per favorire il loro efficace svolgimento sul piano amministrativo, si avvale dell’Ufficio del Consiglio Comunale, di natura extradipartimentale, dotato di piena autonomia funzionale, tecnica e amministrativa e posto alle dirette dipendenze dell’Ufficio di Presidenza”, ed al comma 2 reca: “L’Ufficio del Consiglio Comunale – nel cui ambito vengono istituiti un ufficio tecnico ed un ufficio relazioni esterne per i Consiglieri Comunali – assicura i supporti amministrativi e tecnici necessari: a) alla realizzazione delle iniziative promosse dall’Ufficio di Presidenza o dalla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi Consiliari; b) alla gestione del personale assegnato e all’amministrazione delle risorse economiche e strumentali attribuite all’Ufficio di Presidenza, alla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi consiliari, ai Gruppi consiliari ed alle Commissioni”.

Un primo esempio è stato quello di trasmettere la diretta streaming dell’insediamento della Giunta (7 luglio 2016) sul sito internet www.beppegrillo.it in assenza di qualsivoglia evidenza di gara pubblica, o di apposita concessione. Non a caso la messa in onda dello streaming sul sito www.beppegrillo.it, che ha prodotto certamente ingiusti introiti alla proprietà del sito internet, è stato l’unico reclamizzato sui profili social del sindaco in carica (doc. 5). Mentre il Sindaco di Torino, Avv. Chiara Appendino, anche lei eletta nelle liste del M5s, che si è rifiutata di sottoscrivere il Contratto, ha trasmesso la diretta streaming della prima convocazione della Giunta Comunale dal sito internet del Comune di Torino (doc. 6). Se è vero, come è vero, che una buona amministrazione consiste nella distribuzione delle competenze tra i diversi uffici in maniera razionale utilizzando il personale sulla base degli obiettivi che devono perseguire gli stessi uffici, e la cui predeterminazione delle competenze distribuite per ciascun ufficio è prerogativa di un’amministrazione efficiente, la quale intende sottrarre la propria organizzazione ed attività a qualsiasi elemento di incertezza, casualità o precarietà (CdS, sez. VI, 14 luglio 1978, n. 970), è vero anche che lo staff che i c.d. Garanti indicheranno, e che avrà poteri preventivi e deliberanti sugli atti propri del Sindaco e dell’Assemblea Capitolina, è un corpo estraneo alla pubblica amministrazione. L’eventuale rapporto sinergico tra lo staff e i futuri amministratori è, per sua natura, intrinsecamente intimamente contra legem. E’ del tutto evidente che le parti contrattuali hanno agito in assenza di correttezza e buona fede.

 

4) Nullità del Contratto in ragione della penale di cui al punto 10 del Codice di comportamento. Violazione dell’art. 3 Cost. Infine, al punto 10 del Codice di comportamento viene stabilita una vera e propria penale. Agli eletti sarà comminata una sanzione pecuniaria di “almeno 150mila euro” qualora, nell’esercizio delle proprie pubbliche funzioni, disobbedissero alle disposizioni, per non dire ordini, che saranno impartiti dai c.d. Garanti: che ricordiamo essere Beppe Grillo e la Casaleggio associati s.r.l. Ai candidati (oggi amministratori) viene imposta una “convinta adesione” al Movimento 5 Stelle. La cui natura sembra tipica più di quelle organizzazioni settarie che di una formazione politica. La cui violazione comporta “l’impegno etico alle dimissioni dell’eletto dalla carica ricoperta e/o il ritiro dell’uso del simbolo e l’espulsione dal M5S”, con la conseguenza che, in tale ipotesi, verrà comminata agli amministratori capitolini, una sanzione “quantifica in almeno Euro 150.000” a titolo di danni all’immagine in favore del movimento. Ovvero del suo proprietario: Beppe Grillo.

L’intento è evidente. Si vuole aggirare il divieto di vincolo di mandato, per poter scegliere una classe dirigente ciecamente obbediente e senza alcuna agibilità politica. Aderendo e sottoscrivendo il contenuto del Contratto, gli eletti si trovano, infine, in quella, illegittima e medioevale, condizione di quei neo-assunti che firmano una lettera di licenziamento in bianco, con data da destinarsi e apponibile a semplice piacere della Casaleggio e associati s.r.l. Sottoscrivendo l’illecito Contratto, soggiacciono in quella condizione tipica di quei tanti lavoratori (in nero) vittime del caporalato. Siamo alla presenza di un contratto atipico di caporalato, che fa degli eletti del M5S dei sudditi di Beppe Grillo e della Casaleggio e associati s.r.l., se si tiene conto della penale da “almeno 150 mila euro”. Un vincolo contrattuale addirittura superiore rispetto alla remunerazione che percepirebbero per l’espletamento del mandato elettivo. La presenza di una così ingente penale non è più una questione endoassociativa che attiene alla violazione di democrazia e di pluralismo interni al MoVimento 5 Stelle.

E’ una questione che riguarda tutti i cittadini! Perché soffoca alla radice la libertà di pensiero, di azione politica e di rappresentanza. Spezza il legame tra elettori e candidati, a vantaggio di un controllo totale sugli eletti realizzato dai Garanti con l’ausilio di una s.r.l. La penale pari ad un importo di almeno 150 mila euro, si pone in contrasto non solo con l’art. 3 Cost. per le vessatorie limitazioni di ordine economico e sociale nei confronti degli eletti che hanno sottoscritto il Contratto, ma contrasta anche con il principio di concorrenza tra candidati prima, ed eletti, poi, nelle competizioni elettorali. Si rende dunque necessario rimuovere, in conformità col dettato costituzionale di cui al comma 2 dell’art. 3 Cost., “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono […] l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Tale principio demanda il compito di rimuovere gli ostacoli all’Autorità giudiziaria, che non può, pertanto, sottrarsi dall’adottare i provvedimenti all’uopo necessari. Ulteriore ostacolo alla “partecipazione […] all’organizzazione politica” è dato dall’art. 1 del Contratto che ha vietato al singolo candidato di svolgere la campagna elettorale per sé stesso, e gli impone di fare campagna elettorale in favore di tutti i candidati della lista, anche destinando all’uopo eventuali contributi elettorali ricevuti.

In buona sostanza, la presenza della penale ha reso i candidati, oggi eletti, dei veri e propri subordinati se non addirittura succubi (nel senso di persone che soggiacciono al volere altrui, in quanto incapaci di iniziative personali) rispetto ai Garanti ed allo staff che dagli stessi verrà indicato, e non più liberi Uomini, Cittadini e Lavoratori come sancito agli artt. 1, 2 e 3 della Costituzione. Si passerebbe dalla c.d. democrazia diretta, alla democrazia diretta da Beppe Grillo e dalla Casaleggio e associati s.r.l. Inoltre, il divieto di vincolo di mandato è sancito all’art. 3 co. 3 del Regolamento del Consiglio Comunale di Roma Capitale: “I componenti del Consiglio Comunale e i Consiglieri Aggiunti esercitano le loro funzioni liberamente e senza vincoli di mandato”. La previsione dell’ingente sanzione pecuniaria applicabile, come abbiamo visto, in caso di inadempienza alle norme pattizie contenute nel Codice, e/o in caso di espulsione del Sindaco Raggi dal MoVimento 5 Stelle - il cui procedimento espulsivo non è disciplinato da specifiche regole endoassociative e, pertanto, notoriamente rimesso unicamente all’arbitrio dei c.d. Garanti - rinforza quel nesso causale, già ampiamente sopra descritto, che unito in un sol corpo con le violazioni di norme costituzioni, primarie e regolamentari rende ancor più evidente la reale natura coercitiva delle norme pattizie del Codice.

L’elemento coercitivo rappresentato dalla minaccia di sanzione di “almeno 150 mila euro”, e l’illiceità e/o illegalità delle norme pattizie costituiscono quel nesso causale che vizia l’intero contenuto pattizio del Contratto affetto da nullità assoluta e pertanto insanabile. Qualsiasi libera interpretazione che le parti possano, ora, offrire degli accordi, e persino l’eventuale accertamento della nullità del Contratto, che l’Ill.mo Collegio potrebbe anche autonomamente dichiarare ex officio, non sarebbero, comunque, una misura sufficiente ed idonea a sanare i vizi di ineleggibilità in capo alla candidata Virginia Raggi. In quanto la stessa, anche in presenza di una dichiarazione di nullità del Contratto, rimarrebbe, in ogni caso, moralmente soggetta e vincolata al contenuto dello stesso, ed a coloro che le hanno imposto di sottoscriverlo.  

5) Violazione dell’art. 1 L. n. 17/1982, c.d. Spadolini. In ragione del contenuto contrattuale di cui al punto 2 lettera d) del Contratto – già in precedenza esaminato –, rilevano ulteriori violazioni di legge. In particolare, il tentativo dei “Garanti” e del c.d. staff di ambire a realizzare un controllo personale e totale dell’amministrazione di Roma Capitale, è in palese violazione dell’art. 1 della L. n. 17 del 1982, la c.d. legge Spadolini che disciplina l’associazionismo segreto. Art. 1: “Si considerano associazioni segrete, come tali vietate dall’articolo 18 della Costituzione, quelle che, anche all’interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali ovvero rendendo sconosciuti, in tutto od in parte ed anche reciprocamente, i soci, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale”. Il carattere della segretezza in sé e per sé è ininfluente ai fini della violazione del disposto di cui all’art. 1. Ciò che effettivamente rileva, ai fini della violazione della norma, è la capacità organizzativa dell’associazione - che ben può essere anche palese - ai fini di influenzare ed interferire direttamente sull’esercizio delle funzioni che la legge riserva esclusivamente alle pubbliche amministrazioni. E questo è il caso di specie.

Valuti, in proposito, l’Ecc.mo Collegio, unitamente al Pubblico Ministero, se ricorrono le condizioni per l’invio degli atti alla competente Autorità giudiziaria, al fine di accertare se dall’esposizione dei fatti e dalle argomentazioni di diritto, rilevino, in capo ai c.d. Garanti contrattuali, effettive violazione delle norme penali sopra citate.  

 

P.Q.M.  Voglia l’Ill.mo Tribunale adito, contrariis reiectis, accertare e dichiarare tempestivamente: 1) le condizioni di ineleggibilità della candidata Virginia Raggi alla carica di sindaco di Roma Capitale, a causa del rapporto contrattuale con l’Associazione MoVimento 5 Stelle, Beppe Grillo e Davide Casaleggio derivanti dalla adesione al c.d. “codice di comportamento per i candidati ed eletti del MoVimento 5 Stelle alle elezioni amministrative di Roma 2016 nelle liste del MoVimento 5 Stelle”, in violazione degli artt. 3, 67 e 97 Cost., dell’art. 1 L. n. 17 del 1982, nonché degli artt. 3, 7, 23 del Regolamento del Consiglio Comunale di Roma Capitale, e conseguentemente dichiarare la decadenza dell’avv. Virginia Raggi dalla carica di Sindaco di Roma Capitale. 2) la nullità del “codice di comportamento per i candidati ed eletti del MoVimento 5 Stelle alle elezioni amministrative di Roma 2016 nelle liste del MoVimento 5 Stelle”, sottoscritto tra le parti Virginia Raggi, l’Associazione MoVimento 5 Stelle, Giuseppe Piero Grillo e Davide Federico Dante Casaleggio, in quanto in evidente violazione degli artt. 3, 67 e 97 Cost., dell’art. 1 L. n. 17 del 1982, nonché degli artt. 3, 7, 23 del Regolamento del Consiglio Comunale di Roma Capitale.