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Il 2017 della sopravvivenza europea non ha fermato l'avanzata populista

Paola Peduzzi

La logica “solo noi siamo il popolo legittimo” e le specificità dei Cinque stelle. Due chiacchiere con Yascha Mounk, che studia il liberalismo

Milano. Il Tony Blair Institute for Global Change ha pubblicato lo studio “European Populism: Trends, Threats, and Future Prospects”, che analizza l’andamento dei movimenti populisti in trentanove paesi del continente europeo dal 2000 al 2017. Poiché c’entra l’ex premier britannico, i commenti sono stati inizialmente tutti per lui, eterno “comeback kid” della politica britannica, che in realtà non ha intenzione di tornare in prima persona, semmai preferisce fornire idee e risposte alla crisi della globalizzazione, cioè riesibirsi in quel che fa da sempre: dare linfa alla politica occidentale di centro, moderata, liberale e aperturista.

 

Al di là dell’attivismo di Blair, il paper approfondisce uno dei temi più importanti della politica contemporanea, il populismo, e analizzando i dati elettorali di un centinaio di partiti europei arriva alla conclusione che questo fenomeno non è affatto in recessione. Uno degli autori, Yascha Mounk, racconta al Foglio quali sono i punti rilevanti di quest’analisi. Mounk è un esperto di liberalismo e ancor più della sua crisi, se ne occupa da molto tempo con libri, articoli e podcast: ora è direttore esecutivo del Blair Institute, analista al think tank New America e professore ad Harvard, il 5 marzo pubblicherà un saggio, “The people vs democracy”, che sarà tradotto in Italia per Feltrinelli ad aprile, e che sviluppa anche i temi di questo studio – “c’è una parte corposa sulle risposte che si possono dare al populismo”, dice rassicurante Mouk, che come frase di lancio del libro ha messo su Twitter: “Nessuno può prometterci un lieto fine. Ma quelli che tra noi hanno a cuore la democrazia liberale sono determinati a fare tutto il necessario per combattere per la nostra sopravvivenza”.

 

Tornando allo studio del Blair Institute, “il primo punto rilevante – spiega Mounk – è che il populismo cresce da molto tempo: ci sono stati dei picchi nel 2016, ma se si guardano i dati dal 2000 si vede che i movimenti populisti crescono in modo continuo da quasi vent’anni”. Il numero dei partiti populisti è quasi raddoppiato, da 33 a 63, e il consenso medio è passato dall’8 per cento nel 2000 a circa il 25, cioè è più che triplicato. “E nel 2017, anche se non ci sono state delle vittorie clamorose come si temeva all’inizio dell’anno, il voto per i partiti populisti è cresciuto”. Se l’Europa ha tirato un sospiro di sollievo e si è rafforzata con l’entusiasmo dei sopravvissuti dopo i grandi choc del 2016, non è il caso di abbassare la guardia.

 

Nell’Europa centrale e dell’est, il populismo non è più soltanto “una forza ribelle ed estrema, ma è andato al governo – continua Mounk – Se si viaggia dal mar Baltico giù fino al mar Egeo non si lascia mai un paese governato dai populisti. Buona parte della zona dell’Ue che è diventata democratica con la caduta del comunismo all’inizio degli anni Novanta ora è governata dal populismo e la democrazia appare in pericolo”. Populismo di destra o populismo di sinistra poco importa: “Il populismo non è una ideologia profonda – si legge nell’introduzione del paper – ma una logica di organizzazione politica. Al suo centro c’è una netta distinzione tra amici e nemici, nella quale i sostenitori del populismo sono identificati come il popolo legittimo, e tutte le opposizioni sono considerate illegittime”.

 

Questo è il punto centrale, secondo Mounk, “la logica pericolosa” che riguarda tutti i populismi, di destra e di sinistra. Anche il Movimento 5 Stelle, che nello studio compare nei vari conteggi della progressione del populismo ma non viene catalogato tra quelli di destra né di sinistra. Mounk conosce bene l’Italia (parla un italiano perfetto, l’ha imparato venendo qui in vacanza, quando abitava in Germania, e sua madre passa metà dell’anno in Toscana) e spiega che “il M5S direbbe che non è né di destra né di sinistra. Nasce a sinistra, ma con il passare del tempo ha abbracciato istanze tipiche del populismo di destra, come quelle contro l’immigrazione”.

 

C’è un pregiudizio positivo nei confronti del populismo di sinistra, spiega Mounk, che è considerato meno pericoloso e sovversivo di quello di destra – dominante in Europa, 74 dei 102 partiti studiati nel documento del Blair Institute sono di destra. Ma anche questo pregiudizio svanisce quando si considera “la natura del populismo, il movimento che dice noi e i nostri sostenitori siamo il vero popolo legittimo, tutti quelli che sono contro di noi sono illegittimi. Una volta che si entra in questa logica politica – continua Mounk – diventa molto semplice attaccare le minoranze, come gli immigrati, ma anche le istituzioni, i media, i giudici, le commissioni elettorali. E’ questa logica che secondo me è pericolosa: solo noi populisti siamo il popolo”.

 

Della volontà popolare e del suo rispetto abbiamo sentito parecchio parlare, e sappiamo anche che tutto ciò che si oppone alla cosiddetta volontà popolare diventa in un attimo nemico del popolo – nel Regno Unito quest’anno ci sono stati giornali pro Brexit che hanno portato questa idea di nemico-del-popolo all’estremo, con tanto di foto che parevano liste di proscrizione. Che cosa fare allora quando questa logica e questi movimenti diventano dominanti? Mounk non anticipa “le soluzioni” che ha elaborato nel suo prossimo libro, ma analizza le esperienze europee, come il “modello norvegese” che sottintende che i populisti coinvolti nel governo possono diventare più moderati. “Prima di tutto bisogna capire se i partiti populisti – e questo vale anche per il M5S – vogliono andare al governo – dice Mounk – Uno degli elementi fondanti della logica populista è dire: tutti i problemi sono artificiali, ci sono perché gli attuali politici sono incapaci o corrotti, quando arriveremo al governo noi tutto sarà risolto. E’ ovvio che poi quando i movimenti populisti vanno al governo diventano subito meno popolari, perché non possono mantenere la promessa di cambiamento rapido e radicale. Ai populisti non conviene stare al governo, insomma. Ma nel momento in cui vengono coinvolti, è necessario comprendere quanti danni possono fare”.

 

Questo calcolo non è facile a priori: in Norvegia i populisti al governo sono diventati più moderati, in Austria nella prima decade degli anni Duemila sono addirittura implosi, ora che ci riprovano con il cancelliere Sebastian Kurz non è semplice stabilire in che modo si trasformeranno, o trasformeranno il sedicente europeista Kurz. “Il coinvolgimento dei populisti al governo può essere una strategia, ma è molto rischiosa”, dice Mounk. In ogni caso bisogna imparare non soltanto a convivere con questa realtà, ma soprattutto a governarla. Il populismo non è stato sconfitto in questo 2017 colorato di neoeuropeismo, “nell’Europa dell’ovest i partiti populisti sono meno potenti che nell’est, modificano la politica e la influenzano in modo negativo ma non mettono a repentaglio le istituzioni: è quello che chiamiamo ‘new normal’”, la nuova normalità del populismo. Sperando che lo studioso polacco Adam Przeworski abbia ancora e sempre ragione, lui che ha detto che nessuna democrazia solida e benestante è mai collassata.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi