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La commissione banche può diventare seria solo a una condizione

Alberto Brambilla

Dopo baruffe politiche e baccano mediatico è il momento di (ri)discutere di quale Vigilanza bancaria dotare l’Italia

Roma. La commissione d’inchiesta Bicamerale sulle crisi bancarie è stata un palcoscenico per inscenare uno scontro istituzionale tra Consob e Banca d’Italia e per amplificare le accuse tra partiti sulla gestione di alcuni dossier con notevole risalto per la vicenda di Banca Etruria, marginale per il sistema bancario ma rilevante boomerang per Matteo Renzi e il suo entourage che aveva caldeggiato l’istituzione della commissione. Ora che la legislatura è giunta al termine e la commissione ha concluso il suo lavoro il 22 dicembre scorso è il momento di chiedersi cosa resterà di questa opera di indagine che ha animato il dibattito mediatico dal luglio scorso e soprattutto quale utilità pratica può avere il suo lascito. Entro gennaio dovrebbe essere completata la relazione conclusiva, di cui ieri è stato deciso il programma, che dovrebbe concentrarsi sulle responsabilità dei manager delle banche fallite o comunque in crisi negli ultimi anni. La commissione presieduta da Pier Ferdinando Casini presenterà una decina di proposte emerse dalle audizioni, a cominciare dai suggerimenti da passare alla diciottesima legislatura che uscirà dalle urne a marzo, per rendere più fluida la comunicazione tra la Banca d’Italia e la Consob, ovvero uno dei problemi maggiori emersi dai sette casi di crisi bancarie esaminati.

 

Uno dei temi che i quaranta parlamentari membri della commissione hanno discusso senza grande clamore mediatico, come raccontato anche dal Foglio, è l’idea di rivedere l’architettura della vigilanza sulle banche e sul mercato azionario, quindi coinvolgendo Banca d’Italia e Consob. E’ infatti pacifico che, al netto delle polemiche politiche, dalla commissione è emersa una sostanziale inefficienza degli organismi di Vigilanza in quanto alle volte incapaci di agire perché sguarniti di strumenti adeguati e tempestivi di intervento e altre volte incapaci di comunicare tra loro in tempi rapidi o quanto meno congrui per potere evitare condotte dannose o potenzialmente tali per gli investitori da parte degli amministratori bancari. Una volta manifestata l’inadeguatezza dei guardiani a prevenire l’incendio del castello è quindi utile capire come sia possibile evitare nuovi focolai in futuro. In fondo, nell’atto istitutivo della commissione Bicamerale si dice che uno degli obiettivi dei lavori è quello di “verificare l’adeguatezza della disciplina legislativa e regolamentare nazionale ed europea sul sistema bancario e finanziario nonché sul sistema di Vigilanza, anche ai fini della prevenzione e gestione delle crisi bancarie”.

 

La commissione di Casini ha concluso i lavori e suggerirà alla prossima legislatura alcune modifiche per migliorare la comunicazione tra Banca d'Italia e Consob. Oppure è utile ridiscutere il nostro modello? Ipotesi e suggerimenti dal dibattito pubblico, dal think-tank Bruegel e da un paper dall'Università di Siena

Sul blog economico lavoce.info il professor Francesco Vella, ordinario di Diritto commerciale all’Università di Bologna, marca questo punto nella speranza che la relazione finale non sia priva di un serio dibattito e di proposte concrete sui nuovi assetti regolamentari. Vella ricorda che di occasioni perse ce ne sono state altre nella storia d’Italia e che, in una fase di revisione delle funzioni delle istituzioni europee in materia di regolamentazione e Vigilanza sugli intermediari, sarebbe produttivo ricordarsene. “Qualcuno – scrive Vella – ha dimenticato che all’inizio del secolo, in occasione dei grandi scandali societari che pure coinvolsero migliaia di risparmiatori, il Parlamento discusse a lungo con diversi disegni di legge la possibilità di rivedere una architettura della Vigilanza che già aveva segnalato evidenti criticità, soprattutto nel coordinamento tra le autorità competenti. Ma anche allora incombeva la fine della legislatura e non se ne fece niente: il parto finale, la legge 262/2005, fu decisamente troppo timido e contraddittorio rispetto al tentativo di ridisegnare il sistema dei controlli. E non è un caso che quelle criticità si siano puntualmente ripresentate”. Vella sostiene che si stia trascinando un problema di comunicazione tra le Autorità unito alla sovrapposizione delle competenze tra Consob e Banca d’Italia in fatto di banche. A proposito di mancate comunicazioni, è emerso in commissione che Consob non ha ricevuto informazioni da Banca d’Italia sugli aumenti di Popolare di Vicenza in tre occasioni (2001, 2008 e 2015) mentre quest’anno ha avuto informazioni dalla Banca centrale europea di una sanzione alla banca guidata per un ventennio da Gianni Zonin in tempi utili. In fatto di sovrapposizione, l’Autorità bancaria ha competenza sulla trasparenza quando una banca offre un mutuo. Mentre è l’Autorità che vigila sulla Borsa ad averla sulla trasparenza dei prodotti finanziari emessi dalle banche quando fanno offerte di investimento (es. obbligazioni). E per questo motivo le banche sono state oggetto della maggior parte degli esposti ricevuti da Consob nel 2016 e nel 2015, spostando quindi l’attenzione dell’Autorità nata per badare alla tenuta dei mercati azionari sul settore finanziario, che comunque in Borsa è preponderante. Dunque le inefficienze di comunicazione e le intersezioni sulle precise responsabilità dell’uno o dell’altro organismo hanno motivato sostanziale sfiducia nella popolazione verso il sistema bancario durante e dopo la crisi finanziaria. E se i guardiani sono corresponsabili di scetticismo e scoramento degli investitori/risparmiatori è lecito domandarsi come sia possibile ripensare il sistema di Vigilanza in modo da recuperare l’affidabilità e come farlo in un mutato contesto europeo dove proliferano le Autorità di controllo su banche e mercati finanziari.

  

Un recente rapporto del centro studi brussellese Bruegel curato da Dirk Shoenmaker e Nicolas Véron “A ‘twin peaks’ vision for Europe” mette a confronto i sistemi di Vigilanza europei. Alcuni paesi come Germania, Svezia e Polonia hanno adottato un modello di vigilanza unico, accentrato. In Germania la scelta è stata quella di lasciare alla Bundesbank la responsabilità di garantire la stabilità finanziaria, il bastione a difesa del sistema tedesco, e alla BaFin la sostanziale tutela del patrimonio investito (c’è comunque interazione tra i due). La Francia e l’Italia hanno un modello a “due picchi” (i twin peaks del paper Bruegel) di derivazione anglosassone. In Francia la supervisione per banche e assicurazioni è condivisa tra l’autorità di controllo prudenziale e risoluzione della Banca centrale e l’Autorité des marchés financiers, ovvero l’autorità di Borsa. Seguendo questo approccio la Banca d’Italia è diventata responsabile delle assicurazioni avendo integrato l’Ivass. Il Regno Unito, in una diatriba tra laburisti e conservatori avvicendatisi al governo, aveva sperimentato il modello accentrato ma poi è tornato indietro.

 

Bruegel suggerisce anche che in futuro sarà plausibile introdurre una terzo organismo capace di tutelare i clienti e gli investitori in quanto con il bail-in per cui vengono inflitte perdite ad azionisti, obbligazionisti ed eventualmente correntisti, debba esistere un organo terzo libero da conflitti di interesse che possono emergere tra l’autorità di vigilanza bancaria e le banche vigilate. Approccio quest’ultimo che sfida la “legge di Parkison” secondo la quale quando un’organizzazione cresce, indipendentemente dal lavoro da svolgere, più avrà tempo a disposizione più ne perderà. Vedremo.

 

E’ difficile dire quale sia il modello migliore, la questione è aperta. I difetti del modello bicefalo, quello italiano, sono che in tempi di crisi le sfide richieste dai regolatori in termini di maggiori requisiti prudenziali possono essere così stringenti da spingere le autorità nazionali a chiudere un occhio purché gli intermediari si adeguino. Mentre in tempi di vacche grasse, al contrario, la spinta a raggiungere ad esempio adeguate soglie patrimoniali sia ridotta.

 

Quel che è certo è che la crisi bancaria ha spinto studiosi e osservatori ad arrivare alle radici dei problemi ed evitare scorciatoie improduttive. Nella ricerca “Vulnerabilità del sistema bancario italiano. Diagnosi e rimedi” e Elisabetta Montanaro e Mario Tonveronachi dell’Università di Siena suggeriscono una tesi contrarian rispetto all’orientamento prevalente riguardo allo smaltimento dei crediti deteriorati in pancia alle banche italiane, pari al 17 per cento degli attivi (peggio solo India e Russia). L’opinione degli esperti è che la soluzione non sta in un rapido trasferimento al mercato delle sofferenze come finora suggerito, per giunta facendolo a sconto rispetto al valore di bilancio e con l’apporto di risorse pubbliche per ridurre il fardello a carico degli istituti. “Limitarsi a risolvere il problema dei crediti deteriorati, come oggi si tende a suggerire, non è sufficiente a superare le vulnerabilità strutturali delle banche italiane, derivanti dalle vaste inefficienze dei loro modelli di business. E’ necessario un cambiamento dell’impianto regolamentare e di vigilanza. Un primo, non rivoluzionario cambiamento sarebbe quello di sollevare le banche dall’eccesso di costi regolamentari e di proteggerle da forme di indebita concorrenza”, e questo probabilmente richiederebbe una spinta potente verso i regolatori europei. “Le Autorità di vigilanza dovrebbero – aggiungo gli esperti – focalizzare i loro controlli e i loro interventi sulle condizioni di vitalità di lungo termine, piuttosto che su qualche punto in più dei requisiti di capitale. Un cambiamento più radicale dovrebbe partire dal ricordare che le banche svolgono un fondamentale ruolo sociale per il finanziamento dell’economia e richiederebbe di smantellare l’impianto di Basilea (lo schema di regolamentazione internazionale, ndr) in favore di uno schema più semplice basato sulla vitalità delle banche, sul potere delle Autorità di vigilanza di limitare la distribuzione degli utili, su limiti fissati ex-post al peso degli attivi deteriorati e sull’esclusione da ogni rete di sicurezza pubblica di tutte le banche che rispondano all’assenza di condizioni di vitalità di lungo periodo rifiutando i vincoli sulla distribuzione dei dividendi e le profonde ristrutturazioni necessarie per svolgere la loro funzione sociale”. Il suggerimento è quello di fare in modo che l’istituto vigilato arrivi a meritarsi, per la buona gestione dei suoi affari, la possibilità di vantare garanzie o protezioni che altrimenti non avrebbe. La differenza di prospettiva è evidente: una banca non è un’impresa speciale in quanto “banca”, ovvero potenziale destinataria di sostegno esterno in virtù della sua peculiare natura, ma è un’impresa speciale in quanto deve essere guidata e gestita a monte in modo ancora più attento delle altre. E quando questo non accade sa che sarà penalizzata. Il dibattito è aperto, sperando che la prossima legislatura non seppellisca il problema.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.