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Tre storie che dicono perché la politica deve vaccinarsi dall'incompetenza populista

Claudio Cerasa

La pazzia sulle banche, l’argine contro i no vax, l’orrendo modello Roma. Esempi concreti e attuali per capire che contro lo sfascismo non si può accendere il ventilatore del populismo

Mettiamo da parte per un attimo le ideologie, le appartenenze ai partiti e le molte cianfrusaglie di questa fase politica e proviamo a concentrarci per un attimo su tre storie che dovrebbero essere al centro di una sana e robusta campagna elettorale. Non parliamo dei grandi temi, dell’Europa, dell’economia, della giustizia, delle policy per così dire, ma parliamo di tre piccole o forse grandi storie che dovrebbero aiutarci a segnare il confine tra chi sceglie di stare dalla parte della cialtroneria politica e chi sceglie invece di stare dalla parte del buon senso, del buon governo, dell’efficienza, della sana lotta contro lo sfascismo. Le tre storie riguardano un tema che oggi è sotto gli occhi di tutti, ovvero le polemiche sulle banche; un tema che dovrebbe essere sempre sotto gli occhi di tutti, ovvero le polemiche sui vaccini; un tema che non è sotto gli occhi di tutti ma che meriterebbe di esserlo, ovvero il metodo di governo che esiste a Roma.

 

Se vi state chiedendo quali dovrebbero essere gli ingredienti di una campagna elettorale non fuori dal mondo, non autodistruttiva, anzi persino costruttiva, propositiva, non autolesionista, non suicida, occorrerebbe partire da queste tre chicche.

 

La prima storia riguarda la Commissione sulle banche. Una storia di pura follia politica come aveva intuito per tempo l’attuale presidente della Commissione sulle banche, Pier Ferdinando Casini, che con tempismo, prima di essere nominato a capo della Commissione, aveva detto che “La Commissione sarà un impasto di demagogia e pressappochismo che al di là delle migliori intenzioni non produrrà nulla di buono per le istituzioni”.

 

La storia della Commissione sulle banche è una storia di follia politica, che alimenta gli istinti peggiori del nostro paese, per almeno due ragioni. La prima ragione è legata al fatto che chi sogna di essere un argine ai partiti anti sistema una volta che aziona il ventilatore anti sistema non potrà stupirsi se il ventilatore gonfierà le vele dei partiti anti sistema. Il Pd aveva voluto la Commissione sulle banche anche per dimostrare l’estraneità del Pd al sistema delle banche (un concetto evidentemente senza senso, per un partito che ha governato l’Italia negli ultimi cinque anni e che giustamente si è occupato di banche) ma alla fine, come era prevedibile, la Commissione sulle banche sta diventando qualcosa di simile a una maxi procura di Trani: dove i sospetti diventano reati, le dichiarazioni diventano accuse, i complotti diventano teoremi e dove tutti coloro che sognano di alimentare il fuoco dell’anti sistema (ci sono anche in Forza Italia) non possono che andare a nozze con una fonte purissima di demagogia politica e finanziaria. Il vero elemento surreale della Commissione sulle banche, un elemento sul quale in pochi tendono a riflettere, è però un altro e anche questo dovrebbe diventare (ma non lo diventerà) una lezione per chi ha ambizione di andare o tornare a governare. Per essere chiari: nessuno ha pensato che processare il sistema bancario proprio nel momento in cui le banche italiane non sono più percepite nel mondo come un problema potesse essere un autogol non tanto per un partito ma per un intero paese? La Commissione sulle banche ci consegna dunque due storie che ci dimostrano come una classe dirigente (di governo?) che scommette sulle formule anti sistema non fa altro che fertilizzare un terreno sul quale saranno i propri nemici a raccogliere i frutti. E anche se il volo può sembrare pindarico non possiamo non arrivare a parlare di quello che dovrebbe diventare il metodo giusto da mettere in campo in campagna elettorale per soffocare nella loro mediocrità tutti i movimenti e i partiti che scommettono sullo sfascio: il metodo dei vaccini.

 

Che c’entrano i vaccini con le banche? C’entrano perché negli ultimi anni, nell’ambito della lotta contro il popolo no vax, in Italia è emersa ed è maturata una classe dirigente sana (vaccinata dallo sfascismo) che ha capito in modo chiaro e cristallino quali possono essere le conseguenze devastanti di un sentimento populista che punta a giustificare in tutto e per tutto la lotta contro le élite. La lotta contro le élite, una volta giustificata, legittima qualcosa in più di una semplice ribellione contro il sistema e rende accettabile l’idea che per dare dignità a tutti i cittadini occorra considerare tutti uno uguale all’altro. E se le élite non esistono, se la classe dirigente è corrotta, se un medico radiato vale come un medico non radiato, se un paper smentito vale come un paper non smentito, se un blog vale come l’Oms, se il direttore della Nasa vale come un astrologo, non ci si può stupire che ci sia chi sostiene che non si possono vaccinare i figli “solo perché glielo ordina il medico o il pediatra”. Uno vale uno, e chissenefrega della competenza e della scienza. Alimentare la battaglia anti casta (leggere per credere le parole messe nero su bianco dal Movimento 5 stelle, dalla Lega Nord e da Mdp il 28 luglio del 2017, il giorno in cui è stato approvato il decreto sui vaccini, lo stenografico lo trovate a questo link goo.gl/1dMH31) significa dunque alimentare un mostro culturale che trasforma la competenza in un muro da abbattere, che rende accettabile il principio che l’esperienza sia un problema e che non esista verità più grande di quella veicolata dalla rete (Jason Lanier lo chiama magnificamente il maoismo digitale). La lezione dovrebbe essere chiara: per combattere il cialtronismo populista non occorre accendere il ventilatore del populismo ma occorre accendere il ventilatore del buon senso e impegnarsi per migliorare il sistema, non per distruggerlo alla radice.

 

In questo piccolo affresco resta una storia ulteriore che andrebbe trasformata nel simbolo di un modo di governare (e di ragionare) che non funziona e quella storia riguarda Roma. Questa volta non vi parleremo di tutti i problemi che conosciamo della nostra Capitale, delle risorse sprecate, delle municipalizzate spendaccione, dei trasporti pubblici alla deriva, della non competenza della giunta comunale, ma vi parleremo di una ragione piccola ma significativa per cui il metodo di governo adottato a Roma (purtroppo non solo da Virginia Raggi ma anche dal suo predecessore) dovrebbe diventare il simbolo di come non si governa l’Italia. L’esempio è piccino e riguarda la storia degli alberi della capitale d’Italia. Non vi racconteremo del terribile albero di Natale spelacchiato che si trova a piazza Venezia ma vi parleremo della ragione per cui passeggiando per le strade della Capitale d’Italia è facile ritrovarsi di fronte a una scena di questo tipo: le aiuole con alberi tagliati a metà. Nessuno sembra farci caso ma la vera ragione per cui Roma sta scendendo rapidamente nella classifica generale delle città più vivibili d’Italia, oggi è ventiquattresima lo scorso anno era sedicesima e ogni anno si va sempre più a fondo, riguarda un tema di cui nessuno si occupa mai: l’eccessiva attenzione al moralismo, la poca attenzione all’efficienza e all’organizzazione della città. Che c’entrano gli alberi in questa storia? Ve lo spieghiamo subito. Quando Roma ha un problema con un albero, un tronco troppo vicino a una scuola, un albero che deve essere sostituito con un altro, prima di affrontare il problema principale ne affronta altri di organizzazione. L’albero che sporge su una scuola è un problema dell’assessorato alla scuola, l’aiuola che ospita l’albero è un problema dell’assessorato all’ambiente, lo spazio che l’aiuola occupa sul marciapiede è un problema che riguarda l’azienda che si occupa della pulizia della città, la gestione dell’appalto che dovrebbe essere assegnato per la sostituzione di un albero riguarda un altro dipartimento ancora e alla fine l’inefficienza della burocrazia si traduce in una difficoltà a prendere decisioni e per questo alla fine si opta sempre per una soluzione: piuttosto che risolvere il problema, si tronca il problema alla radice, piuttosto che affrontare un problema il moralista inefficiente sceglie di eliminarlo. La storia degli alberi di Roma (fateci caso, fatevi due passi ovunque, a via Merulana, a viale Mazzini, dove volete voi) ci dice che l’Italia dell’immobilismo (che spesso coincide con l’Italia del moralismo) è un’Italia che non si muove non perché non ci sono soldi ma perché è un’Italia educata a essere solo contro qualcosa, e non a favore di qualcosa, e perché, in definitiva, è un’Italia che, accecata dall’incompetenza, non sa decidere. E per poter decidere qualcosa, e per decidere bene, occorre impegnarsi tutti per evitare che ci sia un paese che in modo irresponsabile soffi ogni giorno sul fuoco dell’anti sistema.

 

Tutto questo per dire cosa?

 

Per dire che forse è arrivato il momento di spegnere il ventilatore e di impegnarsi tutti per costruire e valorizzare una classe dirigente che sappia mettere in campo un’alternativa vera al vero male dell’Italia: l’indifferenza di fronte all’incompetenza. Con il metodo adottato sulla commissione, l’Italia apre le strade al populismo. Con il metodo di governo di Roma, l’Italia si consegna all’immobilismo. Con il metodo adottato sui vaccini, l’Italia può tentare di ricostruire una classe dirigente votata alla competenza. Scegliere il modello da far proprio oggi non dovrebbe essere così difficile, no?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.