Una manifestazione No Tav (foto LaPresse)

Mettersi in marcia contro l'Italia dei veti

Claudio Cerasa

C’è un filo rosso che unisce il no del 4 dicembre a tutti i no allo sviluppo. Bisogna spezzarlo

Come si fa a non arrestare l’Italia? Un qualunque osservatore che non abbia passato gli ultimi mesi della sua vita a foderarsi gli occhi con robuste fette di prosciutto sa perfettamente che a livello internazionale le considerazioni che riguardano il futuro dell’Italia sono collegate a una sola e grande preoccupazione: il terrore che nei prossimi cinque anni il potere dei veti prevalga sul potere dei voti e la paura che a causa di una politica incompetente, incapace e inconcludente l’Italia, piuttosto che continuare ad andare avanti, inizi a tornare indietro. A un anno esatto dalla vittoria del No al referendum costituzionale, a un anno esatto cioè da una riforma che avrebbe potuto mettere il potere dei voti su un piano non inferiore a quello dei veti, la politica italiana si ritrova di fronte a un confronto non così diverso rispetto a quello registrato ai tempi della battaglia referendaria, con l’unica differenza che la sfida non è più quella di raggiungere un sogno, ma semmai di evitare un incubo: regalare il paese ai nemici della cultura d’impresa, fare della non decisione il cuore di ogni proposta di governo, trasformare il populismo istituzionale nel vero motore immobile dell’Italia.

 

Lo scenario da incubo descritto ieri da molti quotidiani, che hanno immaginato una possibile convergenza dopo le elezioni tra il Movimento 5 stelle e il movimento 5 Grasso, non è uno scenario che vive solo sul pallottoliere della politica: è una convergenza che esiste già oggi nel tessuto culturale italiano e di cui il grillismo in fondo è solo la punta di un iceberg più grande, al cui interno si trova di tutto. Il sì al sovranismo, il sì al protezionismo, il sì allo sfascismo, il sì al Tar, il no alle trivelle, il no alle grandi opere, il no ai termovalorizzatori, il no agli impianti di compostaggio, il no all’euro, il no all’alta velocità, il no alle grandi infrastrutture, il no alla finanza, il no ai privati, il no al cemento, il no alle Olimpiadi, il no al Tap, il no al Mose, il no al Muos, il no ai vaccini, il no all’Expo (c’è stato anche quello). In questo lungo elenco di no – oggi incarnato perfettamente dai tribuni che governano la Puglia, dal governatore Emiliano al sindaco di Taranto Melucci, che, pur essendo oggi più tentennanti rispetto a qualche giorno fa, giocano ancora a guardia e ladri con i privati, sognano di far rivivere la più grande fabbrica d’acciaio d’Europa e di non portare nuovo gas in Italia attraverso il Tap – si trovano solo apparentemente storie diverse l’una dall’altra. Se si presta un po’ di attenzione al filo rosso che lega il peggio della cultura antiproduttivista, ambientalista, assistenzialista, anti mercatista del nostro paese – Virginia Raggi dovrebbe chiedersi, alla luce della fuga da Roma da parte di Sky, di Unicredit, di Alma Viva, di Esso, se è solo una coincidenza che una Capitale che non ha il coraggio di scommettere sulle Olimpiadi venga percepita come una Capitale sulla quale non ha più senso investire risorse – si capirà facilmente che dietro a questi “no” c’è una costante che coincide con un tema che dovrebbe diventare il cuore pulsante di una campagna elettorale combattuta contro il partito unico degli irresponsabili: battersi contro l’idea che rendere impossibili le decisioni di chi governa sia la più sofisticata forma di tutela del popolo e di difesa della democrazia.

 

Un paese come l’Italia che non ha un sistema istituzionale in grado di favorire la nascita di governi capaci di far pesare i voti sui veti è un paese in cui le forze più responsabili dovrebbero capire al volo che il vero avversario contro cui scendere in campo in campagna elettorale non è il capo di una coalizione o il capo di una lista, ma è piuttosto un nemico invisibile rappresentato da un’ideologia mortale: la politica di chi usa il moralismo giudiziario come una maschera per nascondere la propria incapacità ad attirare ricchezza. La rottamazione delle persone non esiste più. Se c’è una vera rottamazione da mettere in campo oggi è questa. Mettiamoci in marcia contro la repubblica degli irresponsabili. Continuate a scriverci qui: [email protected].

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.