Luigi Di Maio (foto LaPresse)

L'abiura dei populisti

Claudio Cerasa

I populisti scappano dal populismo (migranti, euro, Russia, aiuto!) e hanno capito che gli italiani considerano impresentabili i leader che rappresentano l’Italia anti sistema. Perché alle forze di governo ora non resta che l’opzione Daniele De Rossi

Che cosa c’entra la visita di Luigi Di Maio a Washington con i nuovi numeri positivi sull’Italia trasmessi ieri dal centro studi dell’Istat? Apparentemente verrebbe da dire nulla, ma se si osserva con attenzione il contesto politico in cui ci troviamo oggi, una volta smaltita l’inutile sbornia delle elezioni siciliane, è facile capire che la grande partita che si giocherà da qui alle politiche è una partita in cui al centro ci sarà la conquista degli unici veri voti che conteranno da qui al prossimo 4 marzo: i voti dei non indignati. La maggior parte degli elettori che sogna di superare “il sistema”, lo dicono i sondaggisti e lo dice soprattutto il buon senso, sa che una scelta anti sistema potrà coincidere con una “x” sul candidato del Movimento 5 stelle o una “x” sul candidato della Lega. Ma in un certo modo si può dire che il blocco degli elettori indignati è ormai un blocco che ha deciso da che parte stare, mentre il blocco degli elettori non indignati non ha ancora deciso come muoversi e da chi farsi rappresentare e per questo è alla ricerca disperata di un autore. Lo dicono i sondaggisti ma lo dice soprattutto il buon senso e il dato più significativo delle ultime settimane della politica italiana è che anche i partiti populisti hanno capito che per avere la speranza di conquistare altri voti il vero bacino a cui devono puntare non è più quello degli elettori incazzati ma è quello, diciamo così, degli elettori più moderati. Così torniamo alla domanda da cui siamo partiti: che cosa c’entra la visita di Luigi Di Maio a Washington con i nuovi numeri positivi sull’Italia trasmessi ieri dal centro studi dell’Istat?

 

C’entra nella misura in cui anche i populisti hanno capito che il populismo ormai non porta più voti – le liste del Movimento 5 stelle in Sicilia hanno raccolto il 27 per cento e se è vero che la Sicilia è la regione dove il movimento si trova più in salute è anche vero che la proiezione nazionale di quel risultato ci dice che i grillini si trovano in realtà intorno al 22-25 per cento, e basta osservare come lo spread è caduto nelle ultime settimane per comprendere che neppure gli osservatori stranieri credono più alla possibilità di un’Italia a guida grillina. E c’entra nella misura in cui anche i populisti hanno capito che i veri impresentabili in fondo sono i leader che rappresentano solo un’Italia anti sistema. Per questo, il viaggio di Luigi Di Maio in America, come raccontato ieri dalla Stampa, comincia con la fake idea, molto spassosa, di smontare “la fake news del movimento alla mercé di Putin” – ed effettivamente l’America è il posto giusto per parlare di questi temi. Per questo Luigi Di Maio, come ha fatto domenica sera da Fabio Fazio, tenta in modo disperato ogni giorno di parlare a un’Italia diversa rispetto a quella delle scie chimiche (auguri). Ma non è solo per questo, ovvero per una questione di tattica, che i populisti tentano di scappare dal populismo.

 

La questione è più complessa e riguarda un tema che avrà un peso nelle prossime settimane e che suona più o meno così: le sorgenti del populismo non pompano più acqua e parlare di alcuni temi oggi non è più popolare. Come si fa a parlare di un paese sull’orlo del collasso quando l’Italia cresce ormai a un ritmo vicino al due per cento annuo? Come si fa a parlare di un’Europa devastata dall’euro quando grazie alla moneta unica l’Eurozona cresce (+ 2,2 per cento) al ritmo più alto degli ultimi dieci anni? Come si fa a parlare dell’uscita dall’Europa come unica soluzione per risolvere tutti i problemi di un paese quando le uniche due realtà che hanno tentato di uscire fuori dal perimetro dell’Europa (Gran Bretagna per parlare di cose serie, Catalagona per parlare di cose meno serie) si trovano in condizioni sempre più difficili, con un pil che vira sempre più verso il basso (le stime dicono che il Regno Unito crescerà dell’1,5 nel 2017, dell’1,3 nel 2018, dell’1,1 nel 2019) e con aziende che scappano da chi fugge dalle regole dell’Europa (nelle prime due settimane dopo la Catalexit, ne sono scappate 900 dalla Catalogna e fino ai primi giorni di novembre le richieste di trasferimenti sono arrivate a essere circa 20 all’ora)? E come si fa, poi, a parlare di un paese “invaso da migranti” quando il numero di migranti sbarcati in Italia tra il primo gennaio 2017 e il 14 novembre 2017 è inferiore del 31,10 per cento rispetto al 2016 (114.606 contro 166.348?).

 

Qualche giorno fa Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia research, ha detto a questo giornale che il numero di ottimisti nel nostro paese aumenta di settimana in settimana e ha messo a fuoco il tema, che i lettori di questo giornale conoscono bene, partendo da due dati: “A settembre 2016, secondo una nostra ricerca, gli ottimisti erano il 24,3 per cento del campione, i pessimisti il 63,3. Dopo un anno, nel settembre del 2017 gli ottimisti erano saliti al 28,9 mentre i pessimisti erano scesi al 59 per cento. E’ soltanto un 5 per cento, ma è qualcosa. Vuol dire che un 5 per cento di persone ha migliorato la percezione”. Secondo dato: “Abbiamo poi chiesto agli intervistati: ‘Lei pensa che il paese sia fuori dalla crisi? Il 2,6 per cento ha risposto sì, il 33,6 ha risposto ‘non ancora fuori ma in via di miglioramento’, il 61,4 ‘siamo dentro una bolla in cui fuori c’è ancora la crisi ma ci viene detto il contrario’”. Tutto questo per tornare alla domanda da cui siamo partiti: che cosa c’entra la visita di Luigi Di Maio a Washington con i nuovi numeri positivi sull’Italia trasmessi ieri dal centro studi dell’Istat? C’entra perché i populisti hanno compreso che per provare a rosicchiare qualche voto agli avversari bisogna indossare la maschera dei finti moderati (anche se qualcuno, un po’ sciocco, continua a far finta che la maschera buona sia il vero volto del populismo becero). E c’entra perché mentre i populisti scappano dal populismo chi dovrebbe far di tutto per non confondersi con i populisti tende invece a mettere spesso le mani nella melma populista, tra vitalizi, anti europeismo e fuffa anti finanza.

 

La vera sfida politica ed elettorale oggi non è più dunque quella di conquistare i voti dell’Italia che dice no (quelli sono già piazzati). Ma è piuttosto quella di conquistare i voti di un’Italia che dice sì e che capisce che il percorso imboccato dall’Italia non va cambiato ma semmai va semplicemente migliorato. I populisti hanno cominciato ad abiurare. Sarebbe un peccato se le forze meno di lotta e più di governo non capissero che in questa campagna la partita elettorale non si vince dando l’impressione di voler rompere tutto ma si vince trasmettendo l’idea di voler continuare a costruire. Daniele De Rossi, lunedì sera, si è rivolto allo staff tecnico della Nazionale di calcio dicendo che no, in quel momento della storia il suo ingresso in campo sarebbe stato sbagliato: “Mica dovemo pareggià”. I sostituti di De Rossi non sono riusciti a “non pareggià” ma la lezione del capitano della Roma vale anche per la politica di oggi: il 4 marzo probabilmente nessuno vincerà le elezioni ma per provare a vincere, e non “pareggià”, c’è qualcuno che deve rimanere in panchina, e quel qualcuno oggi è il populismo. I populisti lo hanno capito. Ora non resta che convincere i non populisti.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.