Antonio Tajani (foto LaPresse)

Agenda Tajani: è uno, trino e ubiquo

Salvatore Merlo

Da Roma a Benevento fino a Trento. Non si ferma mai. E FI lo incorona

Fiuggi, Benevento, Cernobbio, Firenze, ieri Roma e Bergamo, poi Trento… Prima non lo si vedeva mai, adesso è quasi ubiquo, parla continuamente in pubblico, e pur tenendo a lungo la parola riesce a dire poco, anzi pochissimo, che ormai è forse una virtù. In compenso però stringe moltissime mani, soppesa e si fa soppesare, è fotografato e coccolato, incontra Paolo Gentiloni e Vincenzo Boccia, il capo della Confindustria, nella sede del Messaggero, poi fila via in automobile verso un altro appuntamento della sua fittissima agenda: politica o istituzionale? “Se il centrodestra vincesse le elezioni Antonio Tajani sarebbe un ottimo premier”, dice di lui Silvio Berlusconi, e per una volta, persino tra gli avversari, l’indicazione di un leader da parte del Sultano di Arcore non sembra solo un capriccio, una sadica boutade, una manifestazione di ludico cinismo (esempio: “Il mio erede è Angelino Alfano”). E allora: “Il loro candidato premier sarà Tajani”, suppone Enrico Letta, “Tajani” , si lancia Calenda, “ci sa fare”, pensa Renzi, mentre lui, il protagonista di tutte queste attenzioni, anche pericolose, si ritrae nel guscio sicuro del suo ruolo di presidente del Parlamento europeo, “non mi candido”. Però poi ammette che “ci sono le condizioni per vincere le elezioni”. E ieri, a Roma, ha parlato di fronte a quasi duemila iscritti di Forza Italia. Un’investitura. 

  

 

Ottocento posti a sedere, ma la sala dell’Auditorium Antonianum di viale Manzoni, zona semicentrale di Roma, è stracolma e ne conterrà almeno il doppio. E’ una camera a gas. A un certo punto, prima della pausa pranzo, quasi non si respira. Ci sono sindaci, consiglieri comunali, provinciali, regionali, deputati, senatori, ex ministri e soprattutto una marea di aspiranti tali – “siamo almeno duemila persone”. Gente che non trova posto, che si pesta i piedi, tutti accavallati l’uno sull’altro, mucchietti di ceto politico che, dopo le elezioni siciliane, avvertono come una scarica elettrica, la sensazione quasi fisica, stordente, dell’opportunità da non mancare. “Guarda che non ti candidano comunque”, scherza uno, e l’altro, che gli sta pestando l’impermeabile: “Non vedevo una cosa così dai tempi del Pdl”. Al che Maurizio Gasparri, sornione, “come vedi c’è un clima ottimista… anche troppo”.

 

Ed è proprio in questo clima ottimista “anche troppo” che Tajani occupa il posto d’onore, quello che ci si aspetterebbe fosse occupato da Berlusconi – a proposito, dov’è il Cavaliere? “Boh”. Non c’è il Cavaliere. Ma c’è lui, Tajani, celebrato persino per i meriti che non ha – “ha battuto i tecnocrati della Bce”, ci spiega Renato Brunetta stranamente generoso. E insomma c’è Tajani a chiudere l’incontro. Come un capo partito. Applausi e ovazioni, mentre lui, parco di sorrisi, vecchia volpe consumata nell’arte, si espone e si ritrae allo stesso tempo, con la mossa del paguro che avverte il pericolo, poiché l’unico vero erede che Silvio Berlusconi immagina, come sempre, si chiama Berlusconi Silvio. E infatti il paguro Tajani dice subito, non si sa mai, che “l’Europa riconsegnerà a Berlusconi la sua dignità politica”. Genio.

 

E allora Tajani premier! Tajani premier! “Quien sabe”, sorride Deborah Bergamini, responsabile della comunicazione di Forza Italia, la deputata che lo segue con lo sguardo carico di attenzione e forse anche di aspettative, perché sono le aspettative, i sogni (o i miraggi?) ad accelerare il metabolismo di Forza Italia, della sua classe dirigente, del suo ceto politico nazionale e locale. “Siamo ottimisti perché abbiamo attraversato il deserto e siamo ancora vivi”, sospira Annamaria Bernini. E d’altra parte “l’umore è importante”, relativizza Gasparri. “Anche se i voti si contano dopo, e non prima”, mormora Stefano Mugnai, il coordinatore della Toscana. E Tajani? Tajani che farà? “Non si candida. Ma in un contesto d’incertezza istituzionale, nella prossima legislatura, è una carta che potrebbe essere giocata”, ammette Gasparri, purché il centrodestra vinca e Forza Italia prenda più voti della Lega. E vincere, di poco, pare possibile, malgrado Mugnai si abbandoni con pienezza al clima festoso che avvolge tutti, “secondo me noi del centrodestra si vince. E si vince anche bene. Abbastanza per governare da soli”. Chissà. “Ma il capo del governo non potrà essere uno dei leader di partito”, dice la Bernini, in un soffio. “Il nome sarà un compromesso”, aggiunge. “Una mediazione”, specifica. “Un punto d’incontro”, puntualizza. Insomma una mezza misura, una sfumatura di colore, quasi un grigio, anzi un gessato, praticamente Tajani.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.