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Che cosa insegna il voto siciliano a Pd e FI per le prossime elezioni

David Allegranti

Non è detto che le coalizioni di governo siano le stesse che si presentano agli elettori. Numeri e sondaggi

Roma. Il centrodestra vince in Sicilia con una coalizione variegata e agguerrita. Da qui a pensare però che lo schema siciliano valga anche a livello nazionale ce ne corre. Non perché il centrodestra non sia in salute in tutta Italia, anzi, ma perché con il Rosatellum anche la coalizione vincente potrebbe non avere i numeri sufficienti a governare (figuriamoci un singolo partito). Il politologo Roberto D’Alimonte ha studiato le combinazioni possibili per ottenere la maggioranza in Parlamento. “Purtroppo si scoprirà presto che nemmeno il sistema di voto appena varato – ha scritto D’Alimonte sul Sole 24 Ore lo scorso 27 ottobre – ci darà la stabilità di cui il paese ha bisogno per affrontare le sfide difficili che ha davanti”.

 

Per ottenere la maggioranza, i partiti dovranno fare le capriole democratiche. La legge prevede una quota di seggi attribuiti con il sistema uninominale (vince chi ha un voto in più) e una quota di seggi attribuiti proporzionalmente. Le percentuali minime per produrre una maggioranza di seggi sono queste: il 60 per cento dei seggi maggioritari e il 45 per cento di quelli proporzionali. Con questa combinazione la coalizione otterrebbe, alla Camera, 318 seggi, una maggioranza risicata. Giocando un po’ con le percentuali, i risulti cambierebbero, ma sembra poco probabile che qualcuno riesca a raggiungere, per esempio, il 70 per cento dei seggi vinti al maggioritario e il 40 per cento di quelli proporzionali (combinazione che produrrebbe 322 seggi) o il 65 per cento dei voti al maggioritario e il 45 per cento di quelli proporzionali (in questo caso i seggi sarebbero 330). Al Senato invece con il 60 per cento dei seggi vinti nel maggioritario e il 45 per cento di quelli vinti nel proporzionale si ottengono 159 seggi. Con il 70 per cento dei seggi nel maggioritario e il 40 per cento nel proporzionale appena un paio in più.

 

Ma, insomma, quanto serve per governare? “Secondo le nostre simulazioni – dice al Foglio Lorenzo Pregliasco di YouTrend, che sta per pubblicare un dossier con i possibili scenari – basta poco meno del 40 per cento per avere ottime probabilità di ottenere la maggioranza”. Pregliasco a differenza di D’Alimonte pensa che non sia così difficile ottenere un’alta percentuale nell’uninominale e cita un esempio: con il 33 per cento (dato medio dei sondaggi) il centrodestra vince il 60 per cento dei collegi. “Mai come in questo caso è difficile fare previsioni”, dice al Foglio D’Alimonte. Troppe sono le incognite, “ma in gran parte dei collegi del nord dovrebbe prevalere il centrodestra. Nella ex zona rossa in teoria dovrebbe prevalere il Pd, ma se Pd e Mdp non fanno un accordo, anche in quei collegi diventa molto difficile fare previsioni”. Esempio: “In Emilia Romagna, Toscana, Umbria e buona parte delle Marche, il Pd dovrebbe essere primo partito. Senza la concorrenza di Mdp sarebbe certamente vero, ma con la concorrenza dei bersaniani? E se Mdp in queste zone non riesce a eleggere neanche un candidato gli elettori di Mdp, sapendo che il loro candidato non vince, voteranno utilmente quello del Pd? E quanti di loro invece voteranno per il M5s? E poi c’è la grande incognita del sud”.

 

Mdp e Pd potrebbero fare un patto di desistenza, ma sarebbe molto complicato calcolare le compensazioni. Per desistenza, appunto, il Pd potrebbe non presentare un candidato in un collegio a vantaggio di quello di Mdp e viceversa. Ma per compensare l’assenza, questo o quel partito dovrebbe, nel collegio accanto, non presentare neanche la lista, il che andrebbe a scapito del partito più grande, cioè il Pd. Conviene? Non al Pd. Questa situazione ricorda molto le elezioni del 2001, dice al Foglio il professor Stefano Ceccanti. “Bertinotti fece una semidesistenza. Alla Camera, con due schede separate, non presentò candidati per l’uninominale. Al Senato con il voto unico per proporzionale e maggioritario non fece desistenza, perché avrebbe perso tutti i seggi. Questa situazione dunque è coerente con quanto accadde al Senato nel 2001”.

 

A tutto ciò si aggiunge un un’ulteriore considerazione: “Le due leggi sono ora identiche, ma i due elettorati no perché i 18-25enni non votano al Senato. Spesso si parla solo della Camera dei deputati e tutti pubblicano sondaggi solo sulla Camera, ma molti collegi si giocano sull’1-2 per cento che al Senato verrà a mancare in numerosi casi al M5s. Avere la maggioranza in una Camera è un’impresa, in due sarebbe quasi un miracolo”. Per questo al Pd e a Forza Italia potrebbe capitare, per formare un governo insieme, di scomporre la propria coalizione e ricomporla (che è poi quello che è accaduto per far nascere il governo Letta nel 2013). Insomma non è detto che le coalizioni vere siano quelle che si presentano agli elettori: attenzione, un treno può nasconderne un altro, si legge ai passaggi incustoditi delle ferrovie francesi.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.