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L'esercito di De Magistris

Francesco Maselli

Passeggiate nella Napoli dell’ex magistrato, dove i centri sociali sono diventati il vero partito di governo. Così nasce in Italia una folle rivoluzione bolivariana

Controllo popolare. Durante le elezioni comunali del 2016 una serie di attivisti del mondo antagonista napoletano, centri sociali e collettivi studenteschi, compare fuori dai seggi indossando delle magliette con una scritta gialla su fondo marrone: “Controllo popolare antimafia sociale”. L’obiettivo è controllare che le operazioni elettorali si svolgano regolarmente ed evitare che il voto sia inquinato dai “soliti noti”, in particolare alcuni esponenti delle liste riconducibili a Gianni Lettieri, candidato del centrodestra alle elezioni. In alcuni seggi ci sono scontri verbali e persino fisici tra chi controlla e chi non vuole essere controllato da cittadini comuni, elettori come altri che si atteggiano a guardiani dell’ordine pubblico e del corretto svolgimento delle elezioni. La sera della vittoria Luigi De Magistris tiene un comizio improvvisato dalla finestra del suo comitato elettorale, e a un certo punto si infila la stessa maglietta marrone chiedendo platealmente ai fotografi di immortalare il momento, quasi a rivendicare la paternità, quantomeno morale, dell’operazione. Il legame tra il sindaco e i centri sociali è cosa nota in città, c’è chi malignamente sostiene siano il suo partito, chi invece che il movimento sia spontaneo, c’è sempre stato e sempre ci sarà. Forse sono vere entrambe le cose, il fatto è che in questi sei anni di consiliatura le due parti si sono reciprocamente utilizzate. “Questi gruppi costituiscono un elemento strutturale del suo consenso”, spiega al Foglio il politologo dell’Università Federico II Mauro Calise, “Napoli è una città dove l’opposizione è scomparsa: il Pd non conta più nulla, la destra non è maggioranza da quasi trent’anni, il Movimento 5 stelle è stato completamente assorbito da De Magistris. Ecco perché la sua base elettorale, che non è numerosissima, gli consente in ogni caso di vincere le elezioni”.

 

La città dei beni comuni, ribelle, liberata. Ecco Napoli da quando Luigi De Magistris è sindaco, un ex magistrato capace di conquistarla nel 2011 contro ogni pronostico. Ma a Napoli ormai è rimasto poco. La disoccupazione è al 26,6 per cento, più del doppio di quella nazionale, stabile all’11,3 per cento; gran parte dei giovani emigra per cercare lavoro: secondo l’Istat dal 2008 al 2016 hanno lasciato la città 6.501 under 30, il numero in assoluto più alto tra tutti i capoluoghi di provincia italiani, quasi il doppio della seconda classificata, Messina, che ha visto partire 3.900 giovani. Ma il trend è generale, dal 2002 al 2016 la città ha perso quasi 40 mila abitanti, passando da un milione e ottomila abitanti a 970 mila residenti. Il comune può contare su poche risorse, tra le quali gli immobili: ne possiede circa 60.000, molti di alto valore. Inutilizzati.

 

Spazi abbandonati che negli ultimi anni gruppi e comitati hanno occupato, o meglio liberato, prima in maniera abusiva e poi in maniera legale, o quantomeno accettata dall’amministrazione. Il comune di Napoli sostiene di aver trovato una “terza via” oltre la dicotomia pubblico-privato: il bene comune. Il sito del comune ha un’intera sezione dedicata alla nuova esperienza e un assessore “al diritto alla città, ai beni comuni e all’urbanistica” che se ne occupa a tempo pieno: “Il comune riconosce il valore di esperienze già esistenti nel territorio comunale, portate avanti da gruppi e/o comitati di cittadini secondo logiche di autogoverno e di sperimentazione della gestione diretta di spazi pubblici, dimostrando, in tal maniera, di percepire quei beni come luoghi suscettibili di fruizione collettiva e a vantaggio della comunità locale”. La delibera 446 del 2016 cita in particolare sette spazi che hanno ottenuto la qualifica di “bene comune”. Il Foglio ha visitato alcuni di questi, per cercare di capire cosa succede, che attività giustificano questa particolare attenzione da parte dell’amministrazione e quanto resti in questi luoghi della filosofia del “centro sociale” antagonista ritrovo della sinistra extraparlamentare.

 

In una traversa di via Salvator Rosa, che unisce il centro storico e il museo nazionale al Vomero, si trova un ex ospedale psichiatrico giudiziario che, dopo la chiusura nel 2008, è stato occupato nel 2015 da un gruppo di collettivi studenteschi e associazioni. E così il complesso di via Matteo Renato Imbriani è diventato “L’ex Opg Je so’ pazzo”, il centro sociale che ha organizzato il “controllo popolare” e che si vuole spazio liberato e restituito alla cittadinanza. La visione non è del tutto fuorviante. Laddove c’erano ‘e pazze, rinchiusi in una struttura meravigliosa, facile da raggiungere ma nascosta, con il suo chiostro e il suo colonnato distrutti e sconosciuti, oggi c’è un collettivo che se ne prende cura, lo ha fatto rivivere e lo ha trasformato in un centro sociale 2.0. Ci sono delle stanze adibite al consulto medico dov’è possibile fare un’ecografia per chi non vuole aspettare le code interminabili della sanità campana o per chi non può permettersi le cliniche private; spazi per il doposcuola per i bambini del quartiere, un’aula adibita ai corsi di italiano per gli immigrati. Tra i vari servizi si nota uno sportello di assistenza legale per le cause di diritto del lavoro e corsi di teatro. Avremmo voluto più informazioni sull’attività politica del centro, ma purtroppo nessun membro del collettivo ha voluto parlare con il Foglio “a causa della linea editoriale, che certo non è tenera nei confronti di esperienze come la nostra”.

 

Di sera emergono alcune attività non necessariamente legate al “valore sociale” di cui parla la delibera. Nel chiostro si monta un proiettore per trasmettere la partita del Napoli, in un angolo si cuociono salsicce e si vendono panini, in una stanza c’è un bar che spilla birre o prepara cocktail. Saranno un centinaio le persone che pian piano arrivano. Tutto questo serve per finanziare le attività, dicono, anche perché i costi sono molto bassi (una birra piccola alla spina costa 2 euro). Il punto è che tutto questo è al di fuori della legalità, non c’è una licenza per gli alcolici, un registro cassa, un permesso per cucinare e vendere cibo. Esiste un equivoco di fondo: non sorprende che in uno spazio occupato si tengano concerti, si vendano e consumino alcolici o giri del fumo. E’ tutto normale, accade in molte città italiane ed europee: non abbiamo scoperto nulla di nuovo o di rivoluzionario. Ciò che sorprende è però l’atteggiamento dell’amministrazione. Dopo la delibera 446 del 2016 l’ex Opg non è più uno spazio occupato ma è un bene comune, legalizzato, legittimato e citato come esempio dal sindaco. E’ il comune che si occupa di pagare le utenze e della manutenzione straordinaria perché d’altronde è il proprietario del bene, per cui non riscuote alcun canone economico. E’ il comune che cita come esempio le attività che avvengono negli spazi liberati. E’ il comune che si disinteressa di ciò che vi succede all’interno.

 

La situazione è simile allo “Scugnizzo liberato”, l’ex carcere Filangieri. Nel “bene comune” si entra da Salita Pontecorvo, una ripida e stretta strada che taglia in due l’Avvocata, dietro piazza Dante. Anche questa struttura è bellissima: un monastero costruito nel Seicento, convertito in carcere minorile da Gioacchino Murat durante l’occupazione francese e abbandonato all’inizio degli anni Duemila. Il “valore sociale” è visibile, le attività utili alla cittadinanza sono molte e ben organizzate. “Se il comune non si occupa degli spazi allora è giusto che se ne occupi la comunità del quartiere”, dice Bruno mentre mostra al Foglio la struttura. Di sera però le attività cambiano, si fanno concerti, si vende alcol: lo “Scugnizzo” è un ritrovo serale per gli universitari, gli abitanti del quartiere e per gli immigrati. La comunità di Capo Verde ha ottenuto l’utilizzo di una sala per organizzare concerti ogni domenica sera. Naturalmente nessuno scontrino, nessuna licenza. Tutto in nero. I proventi di queste attività, ci spiegano, servono a finanziare il centro, che al di là della manutenzione straordinaria e delle utenze a carico del comune, è totalmente autosufficiente. “Certo”, mi spiega Bruno mentre passiamo sul ponte che dà sul cortile interno, “tutto questo è illegale, siamo consapevoli di non essere a norma. Ma questa è una condizione transitoria, quello che vorremmo è che tutto fosse in regola. Però al momento non è la priorità, la priorità è migliorare le nostre attività, che come si può vedere sono utili al quartiere”.

 

A due passi da San Gregorio Armeno, la strettissima via famosa per le bancarelle dei pastori e dei presepi, c’è l’ex Asilo Filangieri. Era la sede del Forum delle culture, l’evento fortemente voluto dall’amministrazione Iervolino (che ha governato Napoli dal 2001 al 2011) e poi passato totalmente inosservato. Nel 2012 è stato occupato dai precari dello spettacolo napoletano che gestiscono uno spazio oggi utilizzato per offrire spettacoli gratuiti, conferenze (alcune patrocinate dal comune di Napoli), piccole mostre e scuole di recitazione. “Sappiamo bene che non è un’attività legale, o meglio che ci sono alcune norme che non rispettiamo. Ma meglio questo che l’abbandono”, dice Cesare, che pare essere una delle persone più coinvolte nella gestione dello spazio, “tra l’altro non siamo mai entrati in conflitto con il comune, tutte le figure occupazionali della gestione precedente sono rimaste, come i custodi”. Visto il servizio che rende l’Asilo alla città, domandiamo, non sarebbe stato meglio che il comune avesse predisposto un bando, o lo avesse assegnato al miglior progetto? “L’assegnazione farebbe perdere completamente senso all’Asilo, questo è un bene comune, è di tutti”, si inserisce un altro attore che preferisce restare anonimo, “le persone che agiscono cambiano continuamente e nessuno è titolare di nulla qui”. A gestire l’ex Asilo è un’assemblea (dove partecipa chi c’è, non esistono membri fissi come negli altri due spazi che il Foglio ha visitato) che si riunisce una volta al mese, e cerca di risolvere le “poche” divergenze che emergono.

 

Quanto raccontato è possibile grazie all'attuale amministrazione comunale. Ma cosa succederebbe se il prossimo sindaco dovesse essere interessato a gestire gli immobili del comune in un altro modo? Dopotutto questi beni “liberati” sono e restano di proprietà comunale, ed è comprensibile che un’amministrazione possa immaginare il rilancio della città attraverso un diverso utilizzo del suo patrimonio. E non si allude soltanto al fatto che Napoli ha un bilancio con un debito di quasi mezzo miliardo, e che quindi avrebbe bisogno di generare gettito con i suoi immobili, ma anche alla necessità di asili nido, alloggi popolari, biblioteche. Possibile immaginare un utilizzo diverso, che quindi non comprenda i centri sociali? La risposta, da parte di tutte le persone che il Foglio ha incontrato nei beni comuni, è sempre la stessa, ed è negativa. “Un’amministrazione non può non tenere conto di quello che sta succedendo qui” ci dice qualcuno, “il comune ha a disposizione altre proprietà, deve usare proprio queste?”, aggiunge qualcun altro. Ed ecco che da “bene comune” di proprietà pubblica si passa a una concezione privatistica dell’immobile. La delibera e la retorica della liberazione può costituire un precedente e una tentazione, non soltanto per chi è in malafede ma anche per altre associazioni o gruppi che ritengono di svolgere un ruolo di pubblica utilità. Perché un gruppo che svolge attività anticamorra dovrebbe continuare a pagare affitto e utenze nella propria sede se di fronte c’è un immobile di proprietà del comune ma abbandonato? Non conviene. Si occupa e si fa pressione per ottenere il riconoscimento di bene comune. Perché no? L’assessorato ai beni comuni, più volte contattato dal Foglio, non ha trovato il tempo di rispondere alle nostre domande.

 

Negli anni Novanta il mito, la narrazione del potere bassoliniano, era il risorgimento napoletano. Negli anni Dieci è il comune liberato dai poteri forti, il lungomare liberato dalle macchine, gli edifici liberati dall’incuria. Occupazione e liberazione non sono la stessa cosa. L’occupazione è stato il metodo utilizzato della sinistra extraparlamentare napoletana, specialmente negli anni Novanta, per denunciare l’inerzia dell’Amministrazione o per rivendicare diritti, attenzione. Ora il ragionamento è diverso, la liberazione implica un percorso nuovo del “bene comune” che viene liberato e poi utilizzato in maniera spontanea da gruppi informali. Che svolgono delle attività utili, suppliscono all’assenza o alla mancanza di mezzi del comune, ma non rispettano quasi nessuna regola. “Tra le tante attività che svolgiamo qui, bisogna scrivere proprio del fatto che non paghiamo le tasse o non abbiamo la licenza per gli alcolici?”. Un ragionamento troppo comodo, inaccettabile da parte delle istituzioni.

 

Esiste poi la questione politica. Il sindaco senza partito ha trovato una base elettorale nuova e diversa, che si mobilita, una minoranza rumorosa ma decisiva che si contrappone alla maggioranza silenziosa e astenuta – nel 2016 ha votato il 54 per cento degli aventi diritto al primo turno, il 35 per cento al ballottaggio. Molti dei gruppi che gravitano intorno a questi spazi sono sempre pronti a scendere in piazza e mostrare che Napoli è città ribelle. Durante il suo mandato da presidente del Consiglio Matteo Renzi non ha potuto avvicinarsi a Napoli senza creare cortei e contestazioni violente, Matteo Salvini è stato quasi aggredito fisicamente dai centri sociali, che hanno impedito potesse incontrare i suoi sostenitori meridionali, Vincenzo De Luca è ora il nuovo bersaglio. Il sindaco non si dissocia mai, e anzi soffia sul fuoco con dichiarazioni aggressive o violente: “Renzi cacati sotto”, urlava durante la campagna per le comunali. Da San Giacomo puntualizzano che non c’è eterodirezione. Può darsi, ma in fondo che differenza fa? Eleonora De Majo, storica attivista di Insurgencia, centro sociale che non beneficia della certificazione di bene comune (occupa un locale dell’università Federico II) è stata candidata ed eletta al Consiglio comunale con Dema, la lista civica del sindaco; Egidio Giordano, storico rappresentante del centro e sempre in prima fila alle manifestazioni antagoniste, è nel direttivo di Dema, il “controllo popolare” dei seggi è stato organizzato dai centri sociali e alcuni attivisti erano rappresentanti di lista del sindaco. Ivo Poggiani, altro esponente di Insurgencia, è stato eletto nel 2016 come presidente della terza municipalità in accordo con De Magistris.

 

Certo, la piazza è infedele, chi oggi si fa manipolare recita una parte, domani chissà. “Per loro stessa natura i movimenti antagonisti sono poco strutturati” spiega Calise, “i centri sociali rispondono a dinamiche difficili da inquadrare politicamente. Il loro consenso è mutevole, per adesso hanno sfruttato la legittimità che gli ha garantito De Magistris, e in cambio lo hanno votato e sostenuto. Ma cosa succede quando cambia il vento?”. Calise fa riferimento a due nuovi movimenti nati in città, Napoli Direzione Opposta e Partenope Ribelle, federazioni di gruppi antagonisti che gravitano nella galassia di centri sociali e che intendono darsi una struttura per partecipare, con ogni probabilità, alle prossime elezioni. E sono diventati critici con il sindaco, che nel frattempo ha iniziato a ragionare sul proprio futuro. Ecco perché il “bene comune” non è soltanto un utile strumento di consenso e di propaganda a livello comunale, ma può diventare un nuovo tema forte da sfruttare nei prossimi anni.

 

Il progetto politico di De Magistris parte dalle città e dalla difesa dei beni comuni, degli spazi. Ancora, uno dei pochi valori rimasti nei “sud del mondo” dei quali il sindaco si vuole campione. Il suo rapporto, molto stretto, con Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze della Grecia di Alexis Tsipras, e ancor di più con Ada Colau, sindaco di Barcellona, è un indicatore delle ambizioni future. Ambizioni che non sono confinate alla città, ma guardano alla politica nazionale e all’Europa. Ecco perché Varoufakis è stato accolto a settembre al teatro Politeama per parlare del “terzo spazio”, un nuovo campo politico oltre l’establishment e il populismo, un’alternativa al sistema di economia liberale. Sul palco, con De Magistris e il leader greco, sono intervenuti esponenti di quasi tutti i centri sociali. Difficile ottenere una vetrina migliore di questa. L’esposizione della bandiera catalana da una finestra di palazzo San Giacomo durante il referendum per l’indipendenza segnala qualcosa di più del folklore. E’ una strategia. In Italia esiste una base per utilizzare i beni comuni come piattaforma politica, c’è il referendum che con i famosi “4 sì” rese l’acqua pubblica, quello contro le trivelle, che federò una parte delle regioni contro il governo centrale, i lavori di Stefano Rodotà e del magistrato Pasquale Fimiani sulla teoria giuridica dei beni comuni. Sul possibile futuro, che sia nazionale o europeo, Calise si mostra più scettico: “Concordo, la bandiera catalana non è solo una trovata da capopopolo, è segnale di un progetto politico più ampio, non confinato alla città di Napoli. Ma questo progetto dove prende i voti? A sinistra, con tutti i cespugli che stanno nascendo? Ai Cinque stelle, che ormai hanno una proiezione nazionale? Il fenomeno De Magistris può funzionare e funziona, pur con tutte le sue contraddizioni, a Napoli. Che sia esportabile è ancora tutto da dimostrare”.

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