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Vade retro pessimisti. L'Italia è in gran forma (e la politica pure)

Smentiti i profeti di sventura. Renzi e Berlusconi si preparano alle elezioni, con meno fantasmi e inquietudini

Roma. In pochi lo ricordano fra i giornalisti, tutti presi dalla contingenza. Invece lo hanno ben presente i parlamentari, visto che la circostanza ha inciso non poco sulla durata del loro mandato e forse anche sulle speranze di rielezione. Già, perché per molto tempo intorno a queste settimane d’autunno s’erano disegnati scenari inquietanti che vengono contraddetti giorno per giorno, addirittura capovolgendo il senso di uno scorcio di stagione politica che secondo i più si sarebbe addirittura dovuta evitare. Per il bene dell’Italia, della stabilità, della maggioranza di governo, del Pd.

 

Invece vale proprio la pena di ricordare, per gli smemorati del Transatlantico.

 

Secondo i profeti di sventura, non avremmo dovuto arrivare a ottobre con l’attuale assetto perché in questo modo avremmo perso il treno della grande riforma europea la cui partenza, sulla linea Parigi-Berlino, era fissata per l’indomani delle elezioni tedesche, con Macron e Merkel pienamente in charge e gli italianuzzi arrancanti con il loro governicchio di transizione. Come sta andando, invece? Sulle immagini del vertice italofrancese di Lione, Emmanuel Macron ha voluto apporre il timbro “Non si perde tempo”. Velleitario? Forse, ma mentre Merkel comprensibilmente deve rinviare, il primo partner della promessa rifondazione europea lanciata alla Sorbona è un italiano, si chiama Paolo Gentiloni, e il primo atto è stata la firma non sotto una dichiarazione d’intenti ma sotto l’atto di nascita di uno dei più potenti gruppi cantieristici mondiale. Acciaio, grandi motori, roba di una certa solidità. Volendo, una vicenda che ancorché complessa potrebbe essere raccontata agli italiani come esempio di una Europa che funziona, porta soldi, crescita e prestigio (e infatti, a controprova, sui social per un po’ si sono affannati gli scettici più o meno a cinque stelle che sull’accordo Stx hanno schiumato rabbia e scommesso sul fallimento).

 

C’era poi un’altra ottima ragione per la quale avremmo dovuto evitare di trovarci qui, e ora, con questo governo. Si chiamava (si chiama) legge di stabilità. Che avrebbe dovuto far spremere agli italiani lacrime e sangue, trasformando il buon Padoan nel Dracula che rovina anche le ultime poche chance di salvezza elettorale del proprio partito.

 

Pare proprio che non sarà così. Per quanto Bersani si possa sforzare di cercare mucche nel corridoio, e i suoi in Parlamento fare facce feroci, il passaggio della legge di stabilità non è più associato ad alcun trauma, né sociale né politico né parlamentare. Merito dei numeri della crescita, col Pil a più 1,5 per cento, con un indebitamento in riduzione e un saldo primario in forte crescita, sempre pochi soldi da spendere ma qualcosa di positivo per l’occupazione giovanile in cantiere. Nessun trionfalismo, ma certo la manovra dell’autunno 2017 non sarà quell’orrore che anche Renzi per un certo periodo aveva temuto. Anzi, se il premier e i comunicatori di Palazzo Chigi vorranno, pur senza slide qualcosa di buono si potrà proporre agli italiani. Per esempio, giorni fa s’è verificato un piccolo episodio interessante nell’aula della commissione ambiente di Montecitorio quando Delrio, chiamato a dare anticipazioni sulle misure della legge di stabilità, ha ricevuto il pieno apprezzamento addirittura della grillina Daga – una dell’ala dura – sulla stabilizzazione degli ecobonus per le ristrutturazioni edilizie.

 

Parlando di grillini, ecco il terzo fantasma dell’autunno che, guardato in faccia, pare meno spaventoso di come lo si dipingeva. Le elezioni siciliane non porteranno alcuna buona notizia a Renzi, ma contrariamente a quanto accadeva prima dell’estate nessuno dà più per scontato il trionfo grillino, che doveva essere il trampolino dal quale il Movimento si sarebbe lanciato verso la piena presa del potere. Al contrario, se una vittoria annunciata come quella di Cancelleri dovesse sfumare in favore del centrodestra, il contraccolpo su Di Maio – così tanto impegnato in Sicilia nelle ultime settimane – potrebbe essere terribile.

 

Tornando al Pd, è impossibile non notare che se l’autunno 2017 si prospetta tanto diverso dai pronostici, vuol dire che Renzi ha fatto bene ad ascoltare per una volta i consigli di chi, per mesi, s’è sfiancato per dissuaderlo dalla tentazione della rivincita personale accelerata. L’effetto collaterale di questo esito è una geopolitica dem che ritroviamo mutata in modo imprevedibile, confermata dalle stesse parole di Matteo Renzi davanti al popolo della sua Festa. La nuova distribuzione del potere e dell’influenza dentro al Pd è un dato oggettivo, un’evoluzione imprevista ma razionale che, razionalmente appunto, si colloca a metà tra il collasso del renzismo – dai più previsto o auspicato dopo il 4 dicembre – e la deriva autoritaria dello stesso, fola propagandistica dei nemici di Renzi che però aveva attecchito anche grazie agli opportunismi e alla pavidità di buona parte del gruppo dirigente democratico.

 

I tempi di Renzi minaccia per la democrazia sono lontani. In compenso, il renzismo s’è arrestato sulla soglia del precipizio che s’era scavato e si è dato un’altra possibilità, nella forma riveduta e corretta della strana leadership non lideristica di Paolo Gentiloni e nella formazione, forse per la prima volta, di un vero gruppo dirigente.

 

Il ruolo di Minniti e Delrio

 

Sono evidenti il ruolo e il posizionamento del tutto inediti di Graziano Delrio, che raccontano quanto sia cambiata la governance democratica. Nella vicenda agostana dello ius soli e degli sbarchi, i media si sono concentrati sullo scontro fra il ministro delle Infrastrutture e quello dell’Interno, cercando di capire fino a che punto Delrio interpretasse il pensiero di Renzi (come ha quasi sempre fatto) e come si sarebbe mosso il segretario del Pd. In realtà, la vicenda, fino all’iniziativa abbastanza clamorosa dell’adesione allo sciopero della fame per lo ius soli, ha segnato un’altra discontinuità importante nell’universo renziano. Delrio gode, come Gentiloni, di una marcata autonomia intellettuale, che raramente esplicita: da agosto in poi ha deciso di prendersi anche una autonomia politica, abbandonando il ruolo faticoso e non molto gratificante che si era ritagliato (di protettivo fratello maggiore della nidiata di giovani rampanti toscani) per diventare il punto di riferimento di una sinistra democratica totalmente diversa da quella emigrata con Bersani e anche da quella sopravvissuta con Orlando, oltre che interprete autorevole e ascoltato del solidarismo cattolico, uno dei pilastri della nascita stessa del Pd.

 

Un po’ alla volta, effetto ritardato del 4 dicembre, il Pd di Renzi torna ad assumere le sembianze di grande partito “normale”, con una leadership forte ma non più assoluta. I casi di Minniti e Franceschini, per quanto diversi fra loro, arricchiscono il quadro del nuovo policentrismo dem. Quando Renzi era presidente del Consiglio, la squadra dei ministri si comportava e veniva usata come lo staff del premier: oggi con alcuni di loro il segretario del Pd deve fare i conti da pari a pari.

 

La domanda che tutti si fanno è quanto questa situazione inciderà sulla corsa alla prossima presidenza del Consiglio. Così però si saltano molti passaggi intermedi. Casomai, la domanda vera che bisognerebbe porsi è un’altra: se e come questo più ampio e vario assortimento di “offerta politica” del Pd potrà tornare utile in una battaglia elettorale che – anch’essa – sarà molto diversa da come Renzi l’aveva sempre immaginata, quando la disegnava su misura per sé.

 

Nelle aule parlamentari, nelle urne, nelle piazze, nei talk-show, la diciassettesima legislatura è stata quella dello scontro fra Pd e Cinque stelle. Poco o nulla d’altro. Politicamente, mediaticamente, psicologicamente, Renzi ha tagliato fuori il centrodestra, usandolo come appoggio finché ha potuto, o come scarico retorico. Non come un vero concorrente politico, che per Renzi è stato sempre e soltanto Grillo, in un bipolarismo immaginario che alle europee ha portato bene, e al referendum costituzionale ha portato malissimo. Ora, il rientro sulla scena (addirittura da favorito) di Berlusconi – che non sarà il Berlusconi del ventennio, né potrà essere contrastato come si faceva durante il ventennio – dovrebbe costringere il Pd a cambiare schema di gioco (come s’è visto davanti alla teca del sangue di san Gennaro, i Cinque stelle lo stanno già facendo, improvvisando un po’): va bene il fair-play, ma in campagna elettorale Renzi dovrà contrastare l’idea che tra lui e l’ex Cav. ci sia davvero un appeasement grancoalizionale.

 

Qui torna il discorso su Gentiloni e i suoi ministri. Ancora non sappiamo con quale formazione andrà il centrodestra alle elezioni, ma sappiamo che la retorica del giovane energico contro il vecchio stanco, Renzi l’ha già consumata e non potrà riutilizzarla contro Berlusconi: con l’aria che tira nel paese, rischia perfino il boomerang. In teoria, rovesciando le parti, Forza Italia potrebbe invece trovare difficile aggredire l’attuale presidente del Consiglio, oltretutto largamente stimato dall’ex Cav. e dai suoi più stretti.

 

Sarà vero che Gentiloni non è un animale da campagna elettorale (come front runner, perché da spin doctor ne ha fatte e anche vinte svariate), i casi della vita però vogliono che gli indici di popolarità siano tutti dalla sua parte, e certificano a suo favore quella trasversalità tra gli elettori moderati meno politicizzati che Renzi non ha più. Con l’aggiunta recente di un altro bonus politico di grande importanza: Gentiloni si sta dimostrando una vera arma letale, dotata di silenziatore, contro la scissione dalemiana. Attaccarlo si sta tramutando, per Bersani e i suoi, in una missione suicida: con Renzi a Palazzo Chigi per loro sarebbe tutto stato molto più facile. Visto che nessuno mai riuscirà a mettere Gentiloni davanti a Renzi come capofila (candidati premier, come spiega ogni giorno il Foglio, con le leggi che corrono non ce ne saranno), il compito a casa per il Pd dopo la Sicilia sarà trovare il modo di disporre bene sul terreno una squadra che forse non ha più il grande ma solitario Maradona (per usare un antico paragone di Castagnetti su Renzi), ma diversi ottimi giocatori per diverse parti del campo.

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